Numero 42/2019
16 Ottobre 2019
Arriverà il giorno in cui sorseggeremo una spruce ale fatta sulle Serre Calabresi con gli apici di Abies alba?!
Scrivere di birra dovrebbe essere una cosa semplice, direte voi. Ma la birra non è solo quello che vedete nel vostro boccale, bensì è frutto della terra e del duro lavoro, ed è da lì che bisogna partire. Vi invito a leggere attentamente l’intervista col professor Caruso: una persona che ha dedicato gran parte della sua vita alla promozione e diffusione della cultura scientifica e della sensibilità verso la gestione sostenibile del territorio.
Dopo 4 anni di assiduo lavoro Giuseppe Caruso ci regala “La botanica della birra”, il più vasto compendio botanico-brassicolo in circolazione, che da luglio potete trovare in tutte le librerie italiane. L’autore ha come obiettivo descrivere nel dettaglio oltre 500 specie vegetali dal punto di vista botanico, biochimico, del gusto, della storia, dell’utilizzo e dell’eventuale tossicità: è un compendio esaustivo e scientificamente rigoroso nel campo della biologia vegetale applicata alla produzione della birra, pensato per soddisfare la curiosità di un sempre più vasto pubblico di “beerlovers”, appassionati degustatori di birra e “homebrewers”, ma anche le esigenze dei professionisti del brassaggio e della mescita come pure per contribuire alla formazione di botanici, foragers, periti agrari, agronomi e agricoltori sulle nuove tendenze nella scelta degli ingredienti della birra.
Il suo messaggio: Sarebbe davvero un peccato se proprio l’Italia, pur avendo a disposizione un enorme patrimonio di biodiversità spontanea e coltivata, dovesse appiattirsi su produzioni standardizzate dominate da luppoli esotici e invero molto poco sostenibili, non fosse altro che per il semplice fatto di essere prodotti all’altro capo del mondo. I birrai possono davvero cambiare il mondo del brassaggio ed il mercato della birra, conquistando finalmente quote crescenti di mercato. Per farlo però occorrono approfondite conoscenze e creatività.
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Professore, ci racconti la sua storia: di cosa si occupa e dove è maggiormente attivo?
Conseguito il diploma di perito agrario nella mia città natale, Catanzaro, ho studiato scienze agrarie a Piacenza e botanica ambientale ed applicata ad Ancona. Da insegnante di scienze naturali, botanica, biotecnologie agrarie, ho esercitato gran parte della mia attività presso l’Istituto Agrario di Catanzaro dove ho studiato, sempre promuovendo la diffusione di una cultura scientifica ed una sensibilità verso la gestione sostenibile del territorio. Imperativo, quando si sceglie di adottare un approccio del genere, è poter contare su una profonda conoscenza delle risorse naturali e culturali esistenti nel proprio territorio. Come botanico, ciò significa innanzi tutto costruire negli anni una solida conoscenza del patrimonio floristico del proprio territorio, nel mio caso la Calabria. Escursioni, raccolte floristiche e studio della letteratura scientifica sono stati il mio pane quotidiano per molti anni, prima di poter solo immaginare di avere qualcosa da offrire alla comunità scientifica dei botanici italiani. Da allora ho condotto diverse ricerche floristiche, tassonomiche, fitosociologiche, poi pubblicate su riviste scientifiche nazionali ed internazionali, contribuendo al miglioramento delle conoscenze sulla distribuzione geografica e sull’ecologia di specie vegetali poco studiate della Calabria e del Sud Italia. Di quella esaltante epopea di continue scoperte floristiche – la Calabria è ancora oggi una delle regioni italiane meno studiate dal punto di vista botanico – rimane il rigore metodologico intrinseco nella scienza botanica, ed anche una persistente, ancorché ormai marginale, attività di ricerca scientifica. Seguire qualche tesi di laurea e condurre qualche ricerca sul campo implica per me restare in contatto con la ricerca tassonomica e geobotanica del nostro paese, e di conseguenza rimanere al passo con l’evoluzione delle scienze botaniche.
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Come è nata l’idea di questo compendio e quanto tempo ci è voluto per poterlo scrivere?
Da sempre ho guardato alle piante come elementi fondamentali degli ecosistemi, ma anche come organismi viventi capaci di offrire, se utilizzati in maniera oculata e conservativa, una serie di straordinarie opportunità agli esseri umani. La botanica, nelle sue molteplici applicazioni, è difatti una scienza incredibilmente vasta, che spazia dai processi di riqualificazione ambientale, alla valorizzazione delle risorse attraverso forme innovative di turismo naturalistico, fino alla produzione di beni alimentari in chiave di sostenibilità ecologica, economica, energetica, e perfino alla pianificazione ecocompatibile del verde urbano. Mi piace pensare che la conoscenza botanica viaggi su livelli plurimi. In alto, ma solo per semplicità, potremmo inserire la ricerca di base, grazie alla quale nuove fondamentali conoscenze vengono acquisite; esiste poi un livello intermedio, essenzialmente applicativo, destinato ai liberi professionisti ed ai consulenti scientifici, cui è affidato il delicato compito di tradurre le nuove conoscenze in benefici concreti per la società umana; alla base troviamo la definizione di una diffusa consapevolezza scientifica, quelle conoscenze non sempre approfondite sulle piante, condivise però da ampie fette della popolazione, coloro che qualcuno definirebbe “non addetti ai lavori”. È del tutto evidente che se questi livelli rimangono compartimenti stagni è ben difficile che la società possa trarre granché beneficio dalla scienza botanica. Ci sono botanici che scelgono di spendere gran parte della propria azione all’interno del livello più elitario ed esclusivo di questa scienza, mentre altri hanno scelto una professione che li tiene ancorati al livello intermedio, quello applicativo, della botanica. Gran parte dei botanici però, come pure il sottoscritto, si muovono con discreta disinvoltura tra i vari livelli, riconoscendo alla ampia diffusione delle conoscenze botaniche altrettanta importanza che alle nuove scoperte. E naturalmente a costoro è richiesta la capacità di trasmettere nozioni altamente specialistiche in linguaggi e forme adatte ad un più vasto uditorio, mantenendosi in un difficile equilibrio tra rigore scientifico ed esigenze divulgative. È un po’ quello che ho cercato di realizzare nel volume La Botanica della Birra, come pure in precedenti avventure editoriali afferenti a campi diversi della botanica applicata.
.Da sempre sono un grande appassionato di birra ed ovviamente ho sempre saputo che la birra è un prodotto realizzato essenzialmente utilizzando le piante. Però è solo di fronte alla specifica richiesta di tenere alcune lezioni sulle piante brassicole, nell’ambito di un breve corso per aspiranti birrai, che mi sono dovuto interrogare su quali e quante fossero le piante realmente usate nel brassaggio. Gradualmente, perlopiù al bancone della Tana Public House, il pub che si trova proprio sotto casa mia a Catanzaro Lido, si è andata configurando l’idea che poteva avere senso intraprendere il censimento del patrimonio botanico-brassicolo mondiale. Per la verità all’inizio ho seriamente sperato che il dataset non andasse oltre una cinquantina di specie, ma non c’è voluto molto per realizzare che le cose stavano prendendo una piega completamente diversa. Per quanto redigere schede botanico-brassicole e disegnare iconografie non siano esattamente compiti lievi, l’originalità dell’idea ha costituito una fortissima motivazione, anche di fronte alla smisurata crescita delle dimensioni del progetto. La consapevolezza di essere il primo a tentare un’operazione di raccolta di tutto lo scibile botanico-brassicolo planetario in un’unica opera ha rappresentato allo stesso tempo un’enorme responsabilità ed uno stimolo irresistibile. E così, nell’arco di circa quattro anni è stato realizzato il database, il testo delle 500 schede botanico-brassicole e l’altrettanto imponente apparato iconografico del volume.
Perché il suo è un libro indispensabile nelle nostre librerie e come possiamo consultarlo e studiarlo al meglio?
Il libro, facendo leva sul rigore scientifico che la botanica può offrire, oltre a proporre una visione d’insieme sulla sorprendente varietà di piante utilizzate in tutto il mondo per produrre la birra, mira ad eliminare ogni possibile ambiguità rispetto alla corretta identificazione di ogni singola specie usata nel brassaggio. Tali ambiguità discendono in buona parte dall’uso, nella pratica quotidiana del birrificio (ed anche della letteratura brassicola), dei nomi comuni delle piante. I nomi comuni cambiano molto spesso nelle diverse aree geografiche dello stesso paese (ovviamente, cambiano anche nelle diverse lingue!), o lo stesso nome comune viene talvolta utilizzato per indicare due o più specie diverse. Sebbene i nomi comuni in italiano ed in inglese siano stati diligentemente riportati nel libro, non posso fare a meno di evidenziare come ogni ambiguità svanisca semplicemente utilizzando il nome scientifico, perché questo è unico e vale in tutto il mondo. Il nome latino può risultare un po’ difficile? Forse sì, ma solo all’inizio. Dopo un po’ diventa naturale. Inoltre, molti libri che elencano piante brassicole non riportano descrizioni morfologiche accurate che confortino l’identificazione della pianta. Va da sé che in questo libro le descrizioni morfologiche sono ben dettagliate. E poi… esistono sottospecie di una certa specie brassicola? O anche… quali altre specie dello stesso genere hanno applicazioni potenziali nel birrificio? Quando disponibili, tali informazioni sono state riportate accuratamente per ogni specie descritta.
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Il grande paradosso della birra, soprattutto della birra artigianale, sta nel riuscire ad essere al tempo stesso prodotto globale e locale. Se ciascuno stile brassicolo, anche il più tradizionalmente associato ad un determinato territorio, può essere di fatto proposto in qualunque parte del mondo, diventando di fatto globale, può contestualmente risultare caratterizzato da uno o più ingredienti squisitamente locali. Nell’introduzione del libro mi soffermo su questo tema per evidenziare come sia decisamente più auspicabile, coerentemente con la mia vocazione alla sostenibilità, valorizzare le produzioni locali. Ma è ben difficile distinguere tra locale e non, se non conosci l’origine geografica di un prodotto. Ed ecco venire in soccorso una sezione molto importante, a mio avviso, della scheda botanica. In essa si trovano le informazioni riguardanti l’areale della pianta, ovvero dove essa si possa trovare naturalmente; poi è descritto l’habitat originario della specie (informazione utile anche per eventuali sperimentazioni agronomiche), nonché l’area geografica in cui la pianta viene coltivata, non necessariamente coincidente con l’areale naturale. La sterminata bibliografia che chiude il libro assieme ad un corposo glossario per non-botanici, dimostra quanti articoli scientifici e libri siano stati consultati per redigere questo libro. È del tutto evidente che nel realizzare questo corposo volume si sia fatto ogni sforzo per fare tesoro di errori (talvolta in verità piuttosto grossolani) od anche semplici omissioni, presenti in altre opere. Quasi nessuno specifica quali organi della pianta si usino nel brassaggio, o la composizione chimica delle parti impiegate. Vi stupireste poi di sapere quante birre sono state prodotte in passato (e qualcuna ancora oggi) usando specie vegetali notoriamente tossiche. La tossicità, quando nota, viene evidenziata nel libro, anche attraverso il semplice codice di icone che identifica immediatamente le principali caratteristiche di ciascuna specie. Altre informazioni importanti sono gli stili nei quali viene usata una certa specie ed anche uno o più esempi di birre oggi realizzate con l’uso di una specifica pianta. La scheda si chiude con i riferimenti alle fonti bibliografiche che riportano informazioni sull’impiego brassicolo di ciascuna specie.
Questo, ad essere sincero, è il libro che mi sarebbe piaciuto, nella mia duplice veste di impenitente beerlover e botanico, trovare negli scaffali della mia libreria di fiducia quattro anni fa. Sarebbe stato di sicuro meno faticoso leggerlo e studiarlo di quanto non sia stato scriverlo ed illustrarlo. Col senno di poi mi sembra di poter dire che forse esiste un destino per ciascuno di noi cui non è facile sottrarsi. Realizzare un’opera del genere ed incontrare, anche con una certa naturalezza, il favore di un editore prestigioso come Slow Food Editore, non fa che confermare questa mia inusuale ed estemporanea concessione al fatalismo. Al netto della fatica, la più viva speranza però è che questa opera possa davvero contribuire a dare significativo impulso al variegato universo italiano della birra artigianale, settore nel quale la tanto decantata creatività italica non ha certo difettato nel recente passato. La Botanica della Birra, nel colmare una macroscopica lacuna nella pur vasta letteratura brassicola, potrebbe davvero rappresentare un interessante e virtualmente inesauribile giacimento di idee e nuove prospettive da applicare al brassaggio.
Cosa ne pensa del mondo del craft beer in Italia oggi?
Il movimento del craftbrewing italiano raggiunge, in molti casi, livelli di qualità davvero straordinari. Prodotti pari, quando non addirittura superiori, a quelli proposti da competitors assai blasonati, eredi di tradizioni brassicole che affondano le radici nelle brume della storia più antica. Ciò nonostante, la produzione della birra artigianale costituisce, secondo i dati più recenti oggi disponibili, una quota infima della produzione birraria nazionale, di poco superiore al 3%. Scorrendo i dati macroeconomici sorprende scoprire quanto rilevanti siano invece, le implicazioni occupazionali di un settore tutto sommato marginale nel mercato aggregato nazionale della birra. Ma è davvero giustificato tanto stupore? Birra artigianale significa fatalmente piccole dimensioni, e tante persone coinvolte nella produzione.
Beninteso, non ho niente contro la birra industriale, né disdegno una buona, rassicurante e dissetante lager nazionale nelle sempre più roventi estati della costa ionica catanzarese. Anzi, credo che anche i birrifici industriali, in particolare quelli che hanno già cominciato a muovere i primi passi nella direzione di una qualche diversificazione della produzione verso concept birrari pseudo-artigianali, potrebbero trarre importanti spunti dall’attenta consultazione de La Botanica della Birra. Con altrettanta onestà non posso non ammettere che sono solitamente ben felice di spendere qualcosa in più per sorseggiare un prodotto artigianale di qualità, e che alle spalle, piuttosto che un piano industriale, abbia la storia di qualche singolo temerario, o quella di un gruppo di amici homebrewers, o anche due fratelli affiatati che hanno fatto di una passione un progetto di vita, magari contribuendo a creare qualche buon posto di lavoro.
Un paio di settimane fa mi ha scritto un birraio polacco. Nell’auspicare la rapida uscita di una edizione in lingua inglese del libro, mi raccontava che stava per partire per una settimana di foraging in un’area naturale non troppo distante dalla sua residenza abituale. Tali raccolte di piante erano, a suo dire, destinate esclusivamente alla produzione delle sue birre lungo tutto il resto dell’anno. Ecco, spero che La Botanica della Birra spinga i birrai italiani ad esplorare il proprio territorio, magari le prime volte in compagnia di uno dei tanti botanofili, botanici professionisti o esperti foragers che solitamente sono ben felici di condividere la propria conoscenza, sia essa scientifica o tradizionale, sulle piante spontanee. Raccontare il proprio territorio attraverso le piante che in esso crescono da millenni senza alcun aiuto da parte dell’uomo. Meno erboristeria e più Natura, per dirla in una battuta. È solo attraverso questo percorso di riconquista di un rapporto empatico del birraio con il proprio territorio che forse un giorno potremo sorseggiare, giusto per fare qualche esempio, una spruce ale fatta sulle Serre Calabresi utilizzando gli apici di Abies alba subsp. apennina, una sottospecie di abete bianco endemica dell’Italia meridionale, o perfino una Calabrian Pine Ale (piuttosto che una scozzese Scots Pine Ale) realizzata con l’uso oculato di Pinus nigra subsp. calabrica, specie esclusiva delle montagne calabresi e dei Peloritani. Per non parlare delle produzioni agricole di nicchia, altro sterminato giacimento culturale, prima che agronomico e brassicolo. Altrove questa seconda rivoluzione craft, avvantaggiandosi delle ridotte dimensioni e della flessibilità dei microbirrifici, è già in corso ed i risultati, anche commerciali, sono sorprendenti. Sarebbe davvero un peccato se proprio l’Italia, pur avendo a disposizione un enorme patrimonio di biodiversità spontanea e coltivata, dovesse appiattirsi su produzioni standardizzate dominate da luppoli esotici e invero molto poco sostenibili, non fosse altro che per il semplice fatto di essere prodotti all’altro capo del mondo. I birrai possono davvero cambiare il mondo del brassaggio ed il mercato della birra, conquistando finalmente quote crescenti di mercato. Per farlo però occorrono approfondite conoscenze e creatività. La Botanica della Birra mette a disposizione le informazioni, gli imprescindibili strumenti necessari al birraio per conoscere meglio le materie prime impiegate nel brassaggio. La creatività e la passione per il proprio lavoro, come pure la spinta a spostare gradualmente più in alto l’asticella delle proprie consapevolezze e dei propri obiettivi, quelli sicuramente ce li dovrà mettere il birraio.