Numero 02/2017
12 Gennaio 2017
Birrificio: medio non è bello?
A inizio dicembre è stato pubblicato uno studio commissionato dal MoBi, volto a “fornire un quadro generale del settore [dei birrifici artigianali, ndr] sulla base dei numeri reali”. Lo studio prende in considerazione un campione di 50 birrifici – 9 grandi con produzione superiore a 6000 hl/anno, 12 medi con produzione tra 1200 e 5999, 23 piccoli con produzione inferiore a 1200 hl, e 6 brewpub senza limiti di produzione – sugli oltre 1200 attualmente censiti; e si basa sui dati scaricati dal Registro delle Imprese tenuto presso le Camere di Commercio e sui volumi di produzione dichiarati dai birrai nella Guida alle Birre d’Italia 2017. Per tutti i dati nel dettaglio rimandiamo a questo link; personalmente, la cosa mi ha stimolato alcune considerazioni.
La critica che da alcuni era stata rivolta a questo studio è quella di sentenziare che il settore è saturo – dato che i consumi, come già il report di Assobirra ha evidenziato, sono stabili da anni e anche la produzione non è aumentata in maniera significativa – senza però andare ad indagare quanto i birrifici artigianali, più che decuplicati negli ultimi dieci anni, abbiano “eroso” la quota di mercato delle birre industriali. Mi permetto tuttavia di osservare che, al di là del fatto che nessuna delle ricerche che mi sia capitato di vedere dispone di dati disaggregati in questo senso, semplicemente non era questo lo scopo dichiarato dello studio: per cui ridimensionerei la portata di questa “falla”. Certo è plausibile che l’erosione ci sia stata – sempre secondo i dati di Assobirra, un colosso “simbolo” come la Heineken negli ultimi tempi è andata avanti al ritmo di -1% annuo, mentre nei birrifici artigianali si susseguono le nuove aperture -, ma l’obiettivo dell’indagine era vedere se, quali che siano le quote di mercato, il settore è in salute. E qui escono alcuni punti interessanti.
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Tralasciamo la prima parte su come i grandi birrifici possano sfruttare le economie di scala per vendere ad un prezzo più basso, o la dimensione d’azienda per avere più facile accesso al credito; ciò che colpisce è come i medi birrifici sembrino essere stretti in una morsa, troppo grandi per tagliare i costi facendo piccolo cabotaggio e troppo piccoli per arrivare alle economie di scala di cui sopra. La prima mazzata pare essere quella fiscale: i grandi, a fronte di un utile medio annuo di 66.267 euro, pagano in media 33.500 euro di tasse; i piccoli, con un utile medio di 8.462 euro, ne pagano 1.528; ma per i medi queste due cifre sono rispettivamente di 12.418 e 15.362 euro. Vabbè, direte voi, le tasse si calcolano sull’imponibile, mica sull’utile; fatto sta che, se questi dati sono corretti, i medi birrifici si trovano a pagare tasse più alte degli utili, sintomo di una situazione quantomeno distorta.
In secondo luogo, i medi sembrano essere svantaggiati in quanto a ritorno sull’investimento: se per ogni 100 euro investiti da un grande birrificio nel ritornano 17,35, e per un piccolo addirittura 24,32 – cosa spiegata con il fatto che il capitale alla base è relativamente basso – per i medi siamo ad appena 13,20. Verrebbe da pensare che la ragione stia nel fatto che alcuni investimenti “di peso”, come impianti di una certa dimensione, siano comunque necessari; ma la produzione non è ancora tale da permettere di far rendere al meglio questi investimenti. Stesso dicasi per il Margine operativo lordo (ossia il guadagno tolti i costi della produzione, prima delle tasse): 24 per i grandi, 18,11 per i medi, e 23,37 per i piccoli. Un discriminante parrebbe essere i costi del personale: un medio birrificio avrà pure i dipendenti che si contano sulle dita di una mano (cinque in media, secondo lo studio), ma ce li ha, mentre il piccolo di solito vede all’opera solo il birraio e uno o due collaboratori. E lo studio evidenzia come i costi del personale in rapporto alla produzione siano sostanzialmente uguali per grandi e medi birrifici, e significativamente più contenuti per i piccoli.
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Senza volersi ergere al rango di esperti economisti, l’impressione da questi dati è che anche nel mondo della birra artigianale ci sia non solo un’intuibile “soglia critica di dimensione” verso l’alto – essere sufficientemente grandi da fare quell’economia di scala e quegli utili che servono ad andare avanti e possibilmente a crescere – ma anche verso il basso – essere sufficientemente piccolo da “cavarsela in qualche modo”: del resto un birraio mi ha recentemente ricordato come per molti “microbirrai” questo sia sostanzialmente un secondo lavoro e quindi quando si è andati in pari tutto il resto è grasso, pardon birra, che cola, andando però in questo modo a “drogare” il mercato. E questa credo sia una considerazione importante in un momento in cui si sentono sempre più birrai dire che vogliono “fare il passo”, acquistare l’impianto nuovo ed espandere la produzione a fronte delle richieste – fortunatamente – aumentate (a confortare l’idea secondo cui l’erosione di mercato nei confronti della birra industriale c’è): perché potrebbe essere sì un passo importante, ma molto lungo, in alcuni casi forse più lungo della gamba.
Indubbiamente non è corretto generalizzare uno studio che prende in esame un campione ridotto di birrifici – e probabilmente molti dei birrai che leggono potrebbero fare esempi che lo confutano -, ma il fatto che una riflessione si imponga rimane. E se questi dati, pur parziali, serviranno a farla, ben venga.