Numero 27/2017
8 Luglio 2017
I Contrabbandieri di Birra: Capitolo 38
La struttura era imponente; i ragazzi sarebbero stati intimiditi anche solo a visitare il tribunale nuovo, figurarsi in quella situazione , in cui erano lì, in veste di imputati!
Le guardie carcerarie tenevano in mano la catena che collegava tra loro i ragazzi, tramite le manette per le caviglie.
Tramite decisi strattoni, gli agenti imponevano loro la velocità di andatura, la direzione e la distanza da tenere tra di loro.
Come non rimanere basiti di fronte a tutto quello sfarzo sobrio e marziale allo stesso tempo?
Marmi e colonne ovunque, Aquile e Fasci e, dulcis in fundo, di fronte ad ogni aula per le udienze, un mezzobusto del Duce in granitica pietra che, severo, sembrava guardare, condannando a priori, chiunque fosse l’accusato.
Giuseppe deglutì rumorosamente, mentre le pesanti porte in legno rivestite di ottone si aprivano, spinte da uno dei carcerieri.
L’aula era a dir poco immensa.
Sedie di legno in posizione defilata, vicino alla porta, erano riservate alla “stampa”, nel caso di esigenza derivante da processi particolarmente rilevanti.
Cinque file di panche, simili a quelle delle chiese, assicuravano la seduta agli spettatori, visto che i processi erano pubblici.
Poi, uno spazio vuoto, simile alla suddivisione in navate tipica dei luoghi di culto di ragguardevoli dimensioni.
Dinnanzi allo spazio vuoto, un’altra serie di panche, un paio di file.
Servivano per i parenti dei presunti colpevoli.
Chiunque era condotto lì, in aula, sembrava già colpevole, fino a prova del contrario.
E lì, nella prima panca della prima fila, eccoli!
Lei piangeva ed anche lui aveva le lacrime agli occhi.
I genitori dei due ragazzi!
«Mamma! Papà!» fu Pietro il primo a chiamare i propri genitori.
Il ragazzo provò a correre verso i due, ma le catene ai piedi gli ricordarono che non possedeva la consueta libertà di movimento.
«Figli miei!» fu la loro madre ad alzarsi e ad andare loro incontro.
Lei, in lacrime, scostò la guardia che stava tentando di frapporsi tra gli accusati e la loro madre.
Abbracciò e baciò entrambi.
Giuseppe, nonostante stesse piangendo, non aveva il coraggio di guardare la genitrice in volto.
«Giuseppe, Giuseppe! Guardami, figlio mio!»
«Madre…»
«Non importa, figliolo… comunque vada, siamo una famiglia!»
«Ma questa cosa… tutto questo casino… tutto ciò è solamente colpa mia! Se io non avessi…»
«Basta! Il tuo avvocato deve parlare, non tu, non ora! » fu suo padre a far tacere il giovane.
Ed aveva ragione!
Ogni parola in un tribunale, o comunque detta dinnanzi a dei Regi ufficiali, poteva essere usata come prova.
E la situazione dei due ragazzi era già abbastanza critica così com’era.
Si avvicinò a loro un uomo con una toga nera.
Un uomo sulla cinquantina, un avvocato.
Il loro avvocato d’ufficio.
Era troppo costoso un avvocato difensore, per la famiglia strangolata dai debiti.
I soldi che Giuseppe ed i suoi aveva guadagnato dalla vendita illegale di birra, non potevano certo essere utilizzati, sarebbero stati la prova lampante che i loro traffici andavano avanti da un po’ di tempo.
Il processo fu rapido.
Per il contrabbando di birra, i due ragazzi furono ritenuti colpevoli.
In considerazione del fatto che i giovani erano incensurati, tenuto conto che Giuseppe aveva svolto il regolare servizio Militare ed era iscritto al Partito Socialista del Duce, la condanna fu piuttosto lieve.
I due ragazzi furono condannati a tre anni di reclusione.
Tre anni!
Sarebbero durati un’eternità, in quella prigione dove avevano ucciso O’Gigante.
E non avevano ancora affrontato il processo per l’omicidio perpetrato in carcere…
La loro permanenza nelle patrie galere sarebbe stato molto, molto più lungo…
Questo era certo!
Il martello del giudice che rimbombava per tutta l’aula sanciva la loro condanna.
Era tutto reale.
Era tutto maledettamente reale!
Le guardie li portarono via, rapide come dei fulmini si avvinghiarono ai prigionieri.
A nulla servirono i pianti di una madre.
A nulla servì il suo tentativo di trattenerli lì, accanto a sé.
A nulla servirono le suppliche di Pietro, minorenne che venne, però, trattato alla stregua degli adulti.
Il fascismo aveva imposto che dai sedici anni in poi, chiunque fosse stato sottoposto a condanna penale superiore ai due anni di detenzione, scontasse la propria pena in una prigione per adulti.
Fu tutto inutile.
I due vennero scortati via.
Lontano dall’affetto dei propri cari.
Lontano da quella che era la loro normalità.
Lontano dalla libertà.
Ed in tutto quello, Giuseppe, non potè fare a meno di chiedersi dove fosse lei…
La sua amata, colei che avrebbe desiderato come moglie.
Colei che, con ogni probabilità, lo aveva tradito.
Rise, Giuseppe, in modo nervoso, quasi isterico, mentre lo portavano via.
Mentre li riportavano in quel carcere, quel tugurio pieno di sofferenza che, almeno per altri tre anni, avrebbero dovuto chiamare “casa”.