Numero 28/2017
15 Luglio 2017
I Contrabbandieri di Birra: Capitolo 39
Il viaggio di ritorno alla prigione, per quanto corto, sembrò eterno.
Anni ed anni di prigione attendevano i due, non ancora processati per l’omicidio di O’Gigante.
E per Pietro, le porte del carcere degli “adulti” non si sarebbero chiuse per far spalancare quelle del carcere minorile, sicuramente più adato alla sua giovane età e, ad ogni buon conto, un po’ meno truce e duro.
Ma in realtà, il giovane, aveva già provato tutto quello che di peggio la vita del carcerato poteva dare<. Lavori forzati, violenze verbali, percosse, stupri… l’unica cosa che non aveva ancora provato era l’angheria che loro stessi avevano inferto al suo torturatore: la morte.
Ma non era forse essa, più che una condanna, un privilegio?
Una specie di bonus, una via preferenziale per terminare prima del dovuto le proprie agonie terrene?
Certo, chiunque nel mondo soffre, ma è innegabile che l’essere privati della propria libertà, l’essere condannati a subire ogni genere di sopruso ed angheria, era, forse, peggio della morte.
Giuseppe, più cinico e, forse, meno traumatizzato del fratello, pensava a come sarebbe stato il loro rientro in galera.
I detenuti li avrebbero accolti come dei condannati a morte che camminavano, visto l’omicidio dell’uomo di punta della malavita?
Oppure sarebbero stati degli eroi, incompresi dalla società civile, ma osannati dai propri pari?
Oppure, ancora, sarebbero stati ammazzati di botte da parte dei loro carcerieri che, magari, vista la scarsa sorveglianza, la negligenza dimostrata in quell’occasione, avevano incontrato bruschi intoppi di carriera o , addirittura, minacce palesi da parte dei criminali compari del “boss”?
Il viaggio proseguì in silenzio.
Pietro tremava, piangeva, singhiozzava.
Giuseppe, cinico e pensatore, stava già ipotizzando diversi scenari…
Ma il suo sforzo fu vano.
Nonostante facesse galoppare la fantasia nel modo più prolifico possibile, non riusciva a trovareuna soluzione che comprendesse l’incolumità sua e del fratello minore.
No, Pietro non sarebbe sopravvissuto ad altre torture.
Di questo, Giuseppe, ne era certo.
La cosa peggiore, in tutto quell’insano contesto, era che lui, Giuseppe, il fratello maggiore, colui il quale aveva la colpa di tutto… lui… non poteva fare nulla per impedire che il peggio accadesse.
Pietro non avrebbe avuto l’energia, la caparbia, la volontà morale e la forza d’animo per resistere ad un nuovo assalto del destino e dei suoi “sicari”.
Il cigolio dei freni della camionetta destò il giovane dai propri cupi pensieri.
Il pesante cancello in ferro, dalle punte accuminate, cigolò rumorosamente per far entrare il mezzo degli agenti di custodia.
Una sgasata.
Il mezzo che percorse un paio di metri, giusto per far s^ che il soldato di piantone riconoscesse l’autista e l’agente di scorta.
«Oh, eccovi di ritorno! Quindi? Quanto gli hanno dato?»
«Diciamo che ci faranno compagnia per un po’!»
«Bene, bene… avevamo bisogno di una ventata di aria nuova!»
«Già! I tempi sono cambiati!»
«Per fortuna! Non se ne poteva più di quella bestia! Ma era intoccabile!»
«beh, ci volevano degli sbarbatelli per porre fine al regno di terrore!»
Possibile?
A Giuseppe sembrò quasi che…
No, non era possibile…
Le guardie stavano parlando… bene di loro?
Loro, i due fratelli che avevano ucciso il capetto della prigione, loro, due ragazzi arrestati per contrabbando, divenuti omicidi in cella?
Effettivamente, anche se incredibile…
Sembrava vero!
Sembrava realmente che i carcerieri stessero parlando di loro con rispetto.
Giuseppe tirò un calcetto a Pietro, indicando con un cenno del volto il dialogo che stava intercorrendo tra i due agenti.
Incredulo, Pietro, smettendo di tremare, corrucciò la fronte ed aggrottò le sopracciglia…
Giuseppe ebbe la conferma che quello che lui stava interpretando, forse…
Forse era reale!
Forse, veramente, in una situazione che non aveva nulla di normale, ma tutto di paradossale, uccidendo un uomo ed i suoi scagnozzi, i due potevano essersi guadagnati il rispetto dei carcerieri!
E chi losapeva, magari quel cane di O’Gigante teneva sotto scatto anche le guardie, sicché l’omicidio, a quel punto, non imputabile a nessuno degli agenti, era stato utile e comodo a tutti!
In quel momento, una nuova speranza, timida e fioca, come la luce tremolante di un cerino in mezzo ad una bufera di neve, si accese nei loro cuori.
Forse, il destino, quell’arcigna entità che li aveva fatti finire al “gabbio”, non era più così deciso nell’accanirsi sui due!
La flebile luce della tremolante speranza, divenne, infine, un divampante incendio di immani proporzioni, quando le guardie condussero i due fratelli in sezione.
Un boato.
Un lungo applauso!
Urla e schiamazzi come non si vedevano da tempo immemore neppure allo stadio, accolsero il trionfale ritorno dei due.
Il compagno di cella, quello che aveva coperto Giuseppe quando egli stava creando dei punteruoli con le molle del materasso, fu il primo che lo abbracciò non appena le guardie aprirono la cella per farlo entrare.
Con loro enorme stupore, come se quella specie di festa di “bentornato” non fosse già sufficiente, anche a Pietro fu indicato di “accomodarsi” nella stessa cella del fratello!
«Ma che diavolo…» Giuseppe era allibito e chiese spiegazioni al suo compagno di cella.
«Te lo spiego dopo… ora goditi questo momento di Gloria!»
«Non capisco…»
«Per ora, sappi solo questo: i vostri patimenti in prigione sono finiti!»
Né Giuseppe, né Pietro ebbero la prontezza per rispondere a quell’affermazione, sbigottiti com’erano.
Le guardie passarono con dell’ottimo vino, ogni cella ebbe tre bottiglioni da due litri l’uno da tracannare.
Ancora storditi da quella bella, seppur inattesa novità, i fratelli Vinaj festeggiarono.
Le spiegazioni sarebbero presto giunte.