Numero 11/2018
16 Marzo 2018
Malti tedeschi (industriali), luppoli inglesi e americani: la birra artigianale italiana esiste davvero?
Tag: mercato
Le notizie di nuove acquisizioni ed “affiliazioni” di microbirrifici italiani da parte dei grandi gruppi industriali continuano a rincorrersi, tra indiscrezioni e velati comunicati stampa. Di fronte a questi eventi, normali, prevedibili e fisiologici nell’evoluzione di un comparto economicamente in crescita, numerosi appassionati della birra, gridano allo scandalo ed al tradimento dei principi etici dell’artigianalità da parte dei piccoli imprenditori che hanno ceduto alle logiche del profitto ed alle lusinghe delle multinazionali, nonché alla malvagità delle sottigliezze e degli escamotage legali che consentono spesso di mantenere la dicitura “birra artigianale” anche dopo il “trapasso verso l’industria”. Ma mentre tutto questo fragore offusca una realistica e concreta riflessione sulle dinamiche e sull’evoluzione del settore, viene meno l’attenzione verso un ragionamento sul concetto intimo di birra artigianale nel nostro Paese, oltre le mere definizioni legali.
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La domanda, quindi, sorge spontanea: la birra artigianale italiana esiste davvero?
Ad oggi in realtà, infatti, la birra non è poi così italiana e si può pure ragionevolmente dubitare anche della sua intrinseca artigianalità (oltre quanto definito dalle norme vigenti, beninteso) .
Ha, infatti, un senso logico denominare come “italiana” una birra le cui materie prime vengono prodotte, praticamente nell’interezza, al di fuori dei confini nazionali? Ed assume una valenza concreta ed intrinseca fregiare del termine “artigianale” un prodotto realizzato con malti di provenienza industriale, assolutamente standardizzati, lavorati con procedimenti altamente controllati e tecnologicamente guidati?
Al di là della rispondenza alle definizioni normative (Legge 350/2009, Codice doganale comunitario 1992, Dl 135/2009, Reg. UE 1169/2011) oggi appare come per “il consumatore medio”, così come per il legislatore, sia sufficiente che solo le caratteristiche dell’ultima fase di trasformazione, ovvero la brassatura e fermentazione, siano svolti su piccola scale e nell’ambito dei confini nazionali per far assurgere una bevanda, nell’anima fortemente industriale e multinazionale, ad una veste di prodotto artigianale italiano.
Un paradosso, forse non così facile da leggere nei contesti birrari, ma ampiamente superato per altri prodotti alimentari di lunga tradizione. Insomma, se è vero che il consumatore si scandalizza quando trova nel proprio piatto una mozzarella “italiana” prodotta con latte dell’Est Europa, oppure deglutisce con riluttanza un salame prodotto in Italia con maiali nati in Spagna e ingrassati in Francia, o ancora ingerisce con non troppa fiducia un latte di soia Made in USA, perché dovrebbe entusiasmarsi per una birra i cui malti sono prodotti in Germania con orzi canadesi, addizionata di zuccheri di dubbia provenienza ed amaricata con luppoli che arrivano dall’altra parte dell’emisfero?
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Se prendiamo a paragone il settore enologico, o più nello specifico delle eccellenze come il Barolo DOCG o il Brunello di Montalcino DOCG scopriamo che i relativi disciplinari di produzione impongono che la produzione della materia prima, nonché l’intero processo di vinificazione ed affinamento, fino all’imbottigliamento avvenga in aree ben definite geograficamente, limitando le possibilità di intervento tecnologico e valorizzando, dal campo alla tavola, ogni elemento della qualità delle materie prime e della trasformazione. Se i vini della nostra penisola hanno saputo accrescere la loro qualità intrinseca e superare i confini nazionali, per farsi riconoscere a livello globale come prodotti unici di eccellenza inimitabile e non riproducibile altrove, il merito è stato per scelte coraggiose, scomode agli occhi di molti imprenditori, che hanno obbligato ad investimenti non secondari, ma hanno permesso il consolidamento del mercato nel lungo periodo e la creazione di valore aggiunto per tutti gli anelli della filiera produttiva.
Impossibile ipotizzare un analogo sviluppo del settore brassicolo artigianale? Assolutamente no!
Infatti, oggi in Italia possediamo, oltre alle indispensabili condizioni pedoclimatiche, la tecnologia e la possibilità di produrre tutte le materie prime entro i confini nazionali, cereali e luppoli inclusi, nonché di trasformarli in semilavorati (malto e coni essiccati od in pellet).
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Per quanto riguarda il luppolo, complice la recente evoluzione della normativa di settore, stanno proliferando numerosi piccoli impianti, spesso nati non in sinergia con i birrifici e gestiti più per passione (o moda), che secondo i dettami di un business plan serio: il salto di qualità in questo senso si potrà avere solo con investimenti razionali, che considerino come priorità non solo l’ottenimento di un buon prodotto, ma anche la sua selezione, conservazione, trasformazione in pellet o bugs. Ad oggi, secondo un censimento condotto dal progetto Luppolo.it condotto da CRA e Mipaf, la superficie investita a luppoleto in Italia e prossima a poco più di 30 Ha, praticamente inesistente se confrontata alla superficie agricola del nostro Paese (che ammonta a circa 18 milioni di ettari).
Per quanto riguarda la produzione di cereali da birra, anche se a livello italiano sono carenti le varietà di orzi (distici, tetrastici o esastici) registrati ad uso maltario, sussistono da Nord a Sud le condizioni idonee ad ottenere granella di ottima qualità, anche in regimi colturali a basso impatto ambientale, come le forma di agricoltura biologica e biodinamica. Il vero “collo di bottiglia” ad oggi risulta la maltazione: in Italia esistono un numero esiguo di micro malterie artigianali (non più di dieci sparse a livello nazionale e non in rete tra loro), non a caso di proprietà di aziende agricole o di consorzi agricoli (La Vallescura di Piozzano, in provincia di Piacenza, e Cascina Motta di Sale, nei pressi di Alessandria ne sono due esempi molto noti). Ad oggi, però, queste piccole malterie soffrono ancora di una forte variabilità, sia per le differenti ed incostanti caratteristiche delle materie prime, che per la difficoltà nel controllo di processo. Questo aspetto, per molti ritenuto uno svantaggio, dovrebbe invece essere valorizzato come l’elemento per la nuova rivoluzione del concetto di birra artigianale italiana.
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Quindi, fatte le dovute premesse e nonostante le mille difficoltà sopra indicate, produrre una birra davvero italiana per origine delle materie prime agricole, prima trasformazione del malto e del luppolo ed, infine, brassata entro i confini del territorio nazionale è possibile! Qualcuno, ma davvero in pochi ci stanno provando e riuscendo, ma il coraggio per investimenti organici e razionali in tal senso non dovrebbe mancare in un contesto dinamico, con grandi potenzialità, e piuttosto remunerativo come quello italiano.
Questa prospettiva, per essere valorizzata, si deve accompagnare ad una vera e propria rivoluzione culturale di consumo: gli appassionati della birra artigianale devono avere la consapevolezza per superare il mito della standardizzazione delle cotte, retaggio dell’industria, e cercare sapori e gusti autentici e genuini, ma soprattutto sinceri nei valori etici e produttivi trasmessi dalla bevuta.