Numero 05/2021

1 Febbraio 2021

L’ultimo Monaco, l’ultima Birra (trappista)

L’ultimo Monaco, l’ultima Birra (trappista)

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Come oramai sappiamo tutti, il monastero di Nostra Signora di San Benedetto, nella provincia belga del Limburgo, conosciuto per le sue birre prodotte nel piccolo villaggio fiammingo di Achel (AchelseKluis: “il riposo/rifugio di Achel”), ha chiuso per la mancanza di Monaci che potessero controllare e verificare la produzione delle proprie birre, come i canoni della federazione mondiale Trappista richiede. Infatti, perché un qualsiasi prodotto sia autentico trappista (formaggi, birra, liquori, vino, candele ecc. ecc.), e quindi possa utilizzare il famoso logo esagonale, le regole fondamentali da seguire sono fondamentalmente tre:

In primis, la produzione deve avvenire dentro le mura dell’abbazia (in alcuni casi anche nelle immediate vicinanze). In secundis, devono essere prodotti da monaci o monache, altresì sotto la loro stretta sorveglianza, e va ad essi la decisione dei processi produttivi, e l’orientamento commerciale.  In tertium datur, i ricavi della produzione vanno diretti al sostentamento dei monaci e soprattutto alla beneficenza. In summo, per la birra è rispettata la buona regola di fare la seconda rifermentazione in bottiglia (oppure anche la terza).

Quando pochi mesi fa, i due ultimi monaci dell’abbazia si sono dovuti ritirare per problemi legati all’età e inevitabilmente alla loro salute (il Covid-19 è sempre in agguato), l’abate di Westmalle, padre Nathanael Koninkx, ha dichiarato ad un giornale locale, che nonostante le birre vengano ancora prodotte all’interno dell’abbazia di Notre-Dame di Saint-Benoît, non possono più osservare una delle regole fondamentali, abbandonando di fatto il mondo Trappista. Sempre in questa intervista al quotidiano De Tijd, l’abate ha prospettato quello che nei prossimi anni potrebbe succedere realmente, ovvero l’assoluta mancanza dei monaci nei monasteri.

 

Nonostante tutto i monasteri Trappisti in Belgio, sono i primi ad aprire appena la situazione sanitaria lo permette, perché come dice Padre Godfried di Westvleteren:” Dovete sapere che noi viviamo secondo la tradizione benedettina che prevede che i monaci non vivano di ciò che ottengono, ma che vivano del lavoro delle loro mani. In termini molto concreti, questo significa che dobbiamo vivere della nostra fabbrica di birra”. Attualmente però, ci sono meno di cento monaci Trappisti perla produzione brassicola, quindi pensare all’ultimo monaco con l’ultima birra, ha qualcosa di triste e crudelmente reale.

  • 32monaci aWestmalle, ad oggi se ne contano 27.
  • 18 monaci a Westvleteren.
  • 15 monaci a Chimay
  • 15 monaci a Rochefort
  • 14 monaci ad Orval
  • 02 monaci ad Achel, ad oggi non ci sono più monaci.

 

Questi dati si riferiscono al novembre 2020, ma è facile capire come la situazione mondiale della pandemia, possa influire in breve tempo sull’anziana popolazione monastica, tenendo presente che più del 50% sarebbe in età “pensionabile”, e non più in grado di svolgere i propri compiti giornalieri nei monasteri, a parte la preghiera. Se poi a questo aggiungiamo che negli ultimi quattro anni ci sono stati solo due “Fratelli” con il dono della vocazione, la risultante definitiva diventerà solo una media matematica su quando arriveremo alla scomparsa delle nostre amate birre trappiste.

A questo punto qualcuno potrebbe anche dire, che alcuni birrifici artigianali e non solo, abbiano prodotto delle birre in pieno stile abbaziale ottenendo eccellenti risultati, a volte anche più performanti rispetto a quelle originali. Ma questo è il punto! Perché se Mosè divise il Mar Rosso con un colpo di bastone, il nostro “clerical” calice di birra si divide spesso, tra chi vuol bere un prodotto per la sua qualità, e chi si perde nelle sue storie centenarie di quel misticismo unico ed inimitabile.

A porre le fondamenta di questa abbazia, furono gli eremiti chiamati “kluizenaars” posizionando un piccolo santuario in legno come loro luogo di preghiera, dove nel 1648 un ristretto gruppo di monaci olandesi si fermò, decidendo di costruirvi una chiesa per la profonda pace e tranquillità che si respirava in quei luoghi, chiamandola con il nome di “Achelse Kluis”, ed incidendo sull’ingresso questa frase: “Pace a tutti i visitatori”.

 

Certo a qualcuno l’assonanza con questo nome potrebbe ricordare la Brouwerij De Kluis, dove ad Hoegaarden nel 1966 Pierre Celis produsse la conosciutissima Bière Blanche, ed infatti fu sempre lui dieci anni dopo (1976), a brassare la prima birra Achel dal primo dopoguerra (1917). Quando nel 1985 Celis vendette il marchio e si trasferì ad Austin in Texas, la produzione come “beer firm” passò al birrificioDe TeutaNeerpelt fino al 1995.

 

Arrivarono così i giorni in cui la birra Achel, tornò ad essere nuovamente prodotta all’interno del monastero (1998), grazie ad un brewmaster di Westmalle, Padre Thomas. Inizialmente il piccolo birrificio, avente la sala cottura adiacente alla taverna, impegnava poco tempo ai monaci per la produzione, ma quando questa arrivò a toccare i 3000 ettolitri, decisero di affidare la propria birra nelle mani sapienti del birraio girovago, Marc Knops coadiuvato dal suo aiutante Jordi Theeuwen. Le birre rimasero fedeli al loro gusto utilizzando principalmente luppoli Saaz e Styrian Golding, ma soprattutto con il loro carattere forte derivante da una fermentazione primaria, dove il ceppo di inoculo arriva dal birrificio di Van Steenberge (Gulden Draak per capirci), mentre per la seconda rifermentazione in bottiglia, viene usato un lievito secco di Westmalle.

 

 

 

Nonostante l’acqua non provenga da una fonte benedetta e le birre abbiamo avuto una certa “contaminazione” industriale (cosa per i puristi potrebbe creare qualche risentimento intestinale), rimane il fatto che perdere una birra Trappista è decisamente doloroso e spiacevole. Quindi se non leggerete più articoli del sottoscritto sarò probabilmente andato in qualche monastero, nell’intento di salvare la storia di queste birre, che rappresentano il patrimonio cultural-brassicolo di tutti noi.

 

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Andrea Ceretti
Info autore

Andrea Ceretti

Sono nato a Biella il primo giorno di primavera, del 1971 (anche se negli anni settanta era ancora l’ultimo d’inverno).
Probabilmente da piccolo (e già qui), in un giorno qualsiasi durante il catechismo, nel momento stesso in cui il prete raccontava di quando Gesù Cristo, seduto accanto al pozzo di Giacobbe, all’ora sesta, appena vide la donna di Samaria gli disse:” Dammi da bere”, lì per lì restai sicuramente colpito da quella citazione, poiché, fin da metà degli anni novanta iniziai a portarla in giro con me per il mondo, modificandola con un bel “Please, give me a Beer”; perché, a meno che voi non siate il nuovo messia, iniziare gentilmente una frase, funziona anche nel più sperduto e malfamato bar di Caracas.
Appassionato di Birra,cavalli, musica ed un’altra cosa che ora mi sfugge, ma capita a volte di averla proprio sulla punta della lingua. Mi piacerebbe poter pensare ad un giorno in cui,questo piccolo “Pianeta Birra”,fosse sempre più libero da mercanti di pillole per la sete, e con più rose felici e contente di farne parte, senza troppi protagonismi o inutili dispute su chi sia la più bella o la più buona.
Inoltre,in questi anni, ho maturato la convinzione che solo una buona cultura birraria, potrà permettere a quel “Piccolo Principe” che c’è in ognuno di noi, di poter realizzare almeno in parte, il proprio sogno. Tutto in quel semplice e fugace battito di ciglia, mentre abbassando gli occhi, ci portiamo alla bocca un buon bicchiere di Birra, riconciliandoci l’anima….Qualsiasi essa sia.

Con il mutare dei tempi, è cambiato anche il modo di “bere” la Birra.
Si va così affermando la tendenza alla degustazione, più che al consumo.
Dal primo libro, su cui inizia a studiare. Michael Jackson Beer – 8 ottobre1998