Numero 25/2024
22 Giugno 2024
Three Floyds Brewing Company
Tratto da La birra nel mondo, Volume IV, di Antonio Mennella-Meligrana Editore
Munster, Indiana/USA
Ai tempi del college, Nick Floyd non riusciva a capire come i suoi compagni potessero bere le solite insulse birre industriali. Ma, durante un viaggio in Europa, scoprì quella che era la vera birra.
Tornato in patria, iniziò con l’homebrewing, per iscriversi poi al Siebel Institute of Technology di Chicago. Dopo di che, cominciò a lavorare presso la Florida Brewery di Auburndale e un brewpub nei pressi di Chicago che produceva birre di tradizione tedesca, Weinkeller.
Finalmente, nel 1996, con l’aiuto del padre Mike e del fratello Simon, riuscì ad aprire, con un investimento ridotto ai minimi termini, il Three Floyds Brewpub a Hammond (nell’Indiana), in una ex autofficina in mattoni.
Con un impianto arrangiato da 6 ettolitri, che Nick stesso chiamava Frankenstein, il brewpub non tardò a raggiungere un successo tale che, nel 2000, portò all’acquisto di un magazzino più grande, nella vicina Munster, per aprirvi un birrificio con un impianto da 40 ettolitri. Subito la produzione salì a 11 mila ettolitri.
Nel 2005 il vecchio brewpub venne trasferito accanto al birrificio, adibito alla sperimentazione di nuove ricette.
Con l’apertura di un secondo brewpub a Chicago e un nuovo piano di espansione da 10 milioni di dollari, il potenziale produttivo della Three Floyds raggiunse i 117 mila ettolitri all’anno. La distribuzione avviene invece tuttora regolarmente soltanto nell’Indiana, a Chicago e in alcune città del Wisconsin.
Da non trascurare l’apporto decisivo alla fortuna della Three Floyds da parte della Dark Lord Russian Imperial Stout (g.a. 15%), preparata, in stile russo, con caffè, vaniglia messicana e zucchero indiano. Imbottigliata a partire dal 2005, viene commercializzata, al DarkLord Day, presso il Three Floyds Brewpub, solo una volta all’anno, di solito l’ultimo sabato di aprile.
Un altro apporto arrivò a novembre del 2016 dalla Surly Brewing Company, il birraio Todd Haug, insieme alla moglie che era stata licenziata.
Le etichette sono disegnate da diversi artisti e realizzate dallo studio di design Zimmer.
Three Floyds Alpha King, american pale ale di un intenso colore arancio e dall’aspetto velato (g.a. 6,5%); la flagship beer della casa. Le 100 IBU della ricetta originale, risalente al 1996, sono state ridotte a 68 per attenuare un po’ l’amaro. Con una delicatissima effervescenza, la schiuma biancastra fuoriesce fine, compatta, cremosa e di lunga durata. Il bouquet olfattivo non brilla certo per intensità; ma ostenta pulizia, freschezza, eleganza, con aromi floreali, di arancia, pompelmo, aghi di pino, anche vagamente terrosi, che spirano all’insegna del liberismo, senza alcun detrimento dunque per i timidi sentori di caramello e malto biscotto che accennano all’emersione dal sottofondo. Il corpo medio ha la consistenza acquosa sufficiente per la rapidità della bevuta. Biscotto e miele, in sinergia con l’arancia candita e la marmellata di agrumi, predispongono la solida base insispensabile per lo scorrimento armonioso, equilibrato, delle rotonde note di luppolo resinoso. Il finale si rivela una miscellanea organica di spunti erbacei, terrosi e di scorza d’arancia. Poche le sensazioni che si riescono a distinguere nell’articolata ricchezza retrolfattiva, senz’altro quelle amare di pompelmo, lime, mapo.
Three Floyds NECRON 99, india pale ale di colore dorato tendente all’arancio e dall’aspetto nebuloso (g.a. 7,3%); in stile americano. Con un’effervescenza abbastanza contenuta, la schiuma, di un suggestivo color crema, esce minuta, soffice, pannosa, ma si dissolve molto rapidamente. L’aroma non è così intenso, però pulito, fresco, persistente: frutta tropicale (in particolare, mango, ananas e frutto della passione), in primo piano e più in secondo, malto, agrumi, fiori, frutti di bosco, caramello, crosta e mollica di pane; e solo qualche sfumatura di erbe officinali. Il corpo medio si esprime con la tipica trama a chiazza di petrolio. Nel gusto, malto, biscotto, miele, danno inizio a una dolcezza morbida e cremosa; seguono a ruota mango, papaia, frutto della passione, melone retato; poi arriva l’ondata amara della resina, con spunti terrosi e vegetali. Da parte sua, l’alcol non si nasconde, ma riscalda con delicatezza la bevuta in tutto il suo percorso. Nel finale, il luppolo viene allo scoperto con una lieve speziatura che passa presto a una ruvida consistenza terrosa. Dopo un accenno alla dolcezza della frutta tropicale, il retrolfatto evolve rapidamente in un secco amarore vegetale e di scorza di pompelmo.
Three Floyds Apocalypse Cow, double/imperial IPA di colore arancio e dall’aspetto confuso (g.a. 11%); con aggiunta di lattosio. Nata nel 2008, è la birra di giugno, tra le 11 stagionali prodotte ogni anno. Con una scarsa effervescenza, la schiuma bianca sbocca ampia, solida, cremosa, tenace (a dispetto dell’alto contenuto alcolico). L’aroma non è certo esplosivo, ma pulito, elegante, nella sua elevata intensità: agrumi, lattosio, pompelmo, lievito, frutta tropicale, lamponi, torrone, luppolo floreale, tabacco fresco, aghi di pino, bastoncini di zucchero; il tutto, su fragrante fondo di malto caramellato e miele. Il corpo, quasi pieno, ha una marcata consistenza oleosa. Anche nel gusto, malti, biscotto e miele costituiscono, in perfetta sintonia con una succosa componente fruttata, la robusta base per lo scorrimento impetuoso delle note amare di resina e speziate di luppolo. L’alcol non nasconde la propria presenza, ma sa agire con discrezione, apportando il debito cordiale riscaldamento. Un bel tocco acido di agrume consegna il percorso gustativo a un intrigante finale agrodolce. Ancora luppolo speziato, ma adesso di estrema delicatezza, segna la lunga persistenza retrolfattiva, insieme a morbide sensazioni di torrone.
Three Floyds Blot Out the Sun, imperial stout di colore quasi nero e dall’aspetto opaco (g.a. 10,4%). Viene prodotta occasionalmente nei mesi più freddi del Midwest americano e ne esiste anche una versione barricata in botti di bourbon. La carbonazione è molto contenuta; la schiuma cachi, abbastanza ricca, compatta, cremosa, stabile e aderente. Con il loro dominio assoluto, nel bouquet olfattivo resina, erbe e scorza di pompelmo non consentono più di tanto l’ingerenza del cacao amaro, delle tostature, del caramello bruciato. Il corpo medio tende al pieno, in una consistenza pressoché grassa. Gli stessi elementi che spadroneggiano al naso non si rivelano da meno nel gusto, sfruttando senza remore la solida base dei medesimi elementi sottostanti appunto. Da parte sua, l’alcol continua imperterrito il riscaldamento iniziato all’olfatto, senza però disturbare la bevuta, così come non impediva la netta distinzione dei profumi. E, mentre cresce, nel finale, l’intensità del calore etilico, la componente amara della resina soverchia quella della torrefazione. Ma, nella sua lunga persistenza, il retrolfatto compone un equilibrio molto piacevole, con la delicatezza dell’alcol che entra in armonia con la dolcezza del cioccolato e dello zucchero caramellato, mentre in lontananza esalano sensazioni di vaniglia, lattosio, crema di riso.