15 Dicembre 2014
DOKI E LA BEVANDA DEGLI DEI: secondo capitolo
Non la vide per delle settimane.
Doki lavorava, mattino e sera.
Dopo pranzo andava sempre al fiume, a fare il bagno.
Il canneto non celò più quella bellissima ragazza.
Non rivide per tanto, troppo tempo, il sorriso di lei.
Ma non scordò neppure un solo attimo di quel giorno.
I campi, tutti, erano stati arati. E la semina era stata effettuata. I buoi avevano calpestato il soffice terreno con le loro pesanti zampe ed avevano sotterrato adeguatamente le sementi.
Di lì a pochi giorni erano spuntate le prime piantine.
Ed il suo lavoro, ora, era divenuto più pesante e faticoso: doveva percorrere ogni centimetro dei campi ed estirpare le erbacce che si sviluppavano a fianco del prezioso orzo.
Sempre curvo, il viso rivolto verso il basso.
Nell’arco di pochi anni sarebbe comparsa una dolorosa ed antiestetica gobba sulla sua schiena, uguale a quella che affliggeva suo padre.
Ma gli Dei avevano scelto per lui la sua vita.
Il suo lavoro.
Le sue fatiche.
Ad altri, gli Dei, avevano destinato una vita diversa, più agiata.
Ma a lui, ad ogni buon conto, piaceva il suo lavoro.
I profumi dell’Egitto in quei mesi erano inebrianti.
Erano la dimostrazione dell’esistenza e dalla benevolenza degli Dei.
Ma lei… perché non la incontrava mai?
Gli Dei stessi avevano forse deciso di punirlo per qualcosa?
Di giocargli un tiro mancino?
Ma non aveva tempo per pensare a quella bella dama celata dal mistero.
L’orzo era anche un alimento da dare agli animali.
Faceva parte della loro dieta.
E lui doveva pensare anche al loro nutrimento.
La granella di orzo veniva inumidita con dell’acqua fresca e pulita.
Per accorciare i tempi, i semi venivano posti in un contenitore di terracotta riempito a metà di acqua.
I semi restavano dal mattino alla sera a mollo ed una volta zuppi di fresca e vitale acqua, venivano poi forniti agli animali come cibo ed abbeveraggio.
Mentre era intento ad attuare quella pratica, Doki sentì dei rumori provenire dall’esterno, dalla campagna circostante.
Urla.
Metallo che cozzava su altro metallo.
No…
Non poteva essere…
Si precipitò fuori, trafelato ed ansioso.
Suo padre, come lui, aveva sentito i medesimi schiamazzi.
Ma non erano le voci gioviali dei festeggiamenti per la festa di Opet.
Erano suoni ben più lugubri.
Più minacciosi.
Terrificanti.
Erano i suoni della guerra.
Seth, Dio del caos, l’assassino del suo stesso fratello, il Signore della desolazione e del deserto, lui, aveva scatenato quella battaglia.
Doki aveva a lungo pregato, come tutte le persone che abitavano le campagne di quella zona di confine, che i due eserciti non si battessero mai.
Da settimane le due fazioni contrapposte erano stanziate nella zona.
Sembravano assorti in una strana, irreale ed immutabile stanzialità.
Nessuno dei due eserciti sembrava avere l’intenzione di mutare quell’equilibrio, quel compromesso mai pronunciato al quale erano giunti.
L’esercito del Nord fronteggiava quello del Sud.
In quella zona di confine.
Il confine tra quei due territori era sempre stata una terra di nessuno, laddove i suoi abitanti, sperando di non incorrere nelle scorrerie dei predoni del deserto, vivevano in pace ed autonomia.
Nessuno aveva la certezza di vivere tutta la propria vita in pace.
Ma finché essa fosse durata, in quell’irreale immobilismo di truppe, tutto doveva continuare a svolgersi con i medesimi ritmi.
I campi non si sarebbero coltivati da soli, gli animali non si sarebbero munti in autonomia… la guerra non era affare della gente che lì viveva, non finché essa non avesse sconvolto le loro terre.
La vita era dunque continuata nella normalità, subito dopo la presa di coscienza che quelle truppe, le une da un lato e le altro dal lato opposto, non avevano intenzione di duellare.
E loro, lì, in mezzo a quei due fuochi, tra l’incudine e il martello, lo avevano compreso dopo soli tre giorni dall’arrivo dei due schieramenti.
Messaggeri da un lato attraversavano i campi e le campagne per giungere nell’accampamento nemico per recare un messaggio; poche ore dopo lo stesso messo tornava indietro accompagnato da un altro uomo, un altro schiavo, recante la risposta.
E così via tutto il giorno, per tutti i giorni.
E le giornate e le lune si erano susseguite.
Nessun atto offensivo.
Nessuno.
Fino a quel giorno.
Quella mattina, Docki aveva visto un messo dal volto rigato da lacrime portare con se una bisaccia di foglie di papiro incrociate tra di loro.
Essa era chiusa in cima da un laccio creato con le fibre dello stelo dello stesso papiro con il quale era stata creata la bisaccia.
Ma essa non era riempita di qualcosa di innoquo, no!
Doki era certo di aver visto delle gocce di rosso liquido grondare dalle larghe maglie del contenitore.
Era sangue.
Sicuro come la piena del Nilo.
E gli sembrò di aver intravisto all’interno di quell’improvvisato contenitore, una forma simile ad una testa umana.
Un brivido di terrore gli aveva percorso, per un attimo, la schiena.
Ma tutto era passato, quando, una volta raccontato l’accaduto a suo padre, lui stesso gli aveva detto che aveva sicuramente sbagliato, che nessuno in guerra uccideva un messo.
Nessuno.
Era una barbarie inconcepibile anche per il più terribile degli scorridori del deserto.
Suo padre ne era sicuro.
Certissimo.
E chi era lui per credere ad una fugace immagine e non alle parole di un anziano saggio?
Ma quei suoni…
Quelle grida…
Quelle tetre note scaturite da trombe create dalle corna dei grosi tori macellati…
«Padre…»
« Vai in casa, Doki….»
« La guerra… Avevo ragione questa mattina… »
« Va in casa, veloce!»
« Ma padre… »
« Veloce, fa come ti ho ordinato!»
Doki, in un attimo d’ ira, incomprensione, nella foga dell’adolescenza…
Nell’ardore della disobbedienza che rende uomini, quel giovane, quel ragazzo, scattò di corsa verso uno dei due schieramenti.
L’uomo aveva fatto infine capolino nel corpo del fanciullo.
Avrebbe combattuto per la sua casa, la sua terra ed i suoi amici.
Non poteva stare a guardare mentre la sua terra stava per essere devastata ed insozzata dal caldo e rosso sangue.
Aveva osservato a lungo i due eserciti contrapposti.
Aveva capito, soltanto guardando le porzioni di terra che occupavano gli schieramenti, quale esercito era più numeroso.
Quale esercito era in vantaggio numerico.
Si precipitò, dunque verso l’esercito proveniente dal Delta del Nilo.
« Figlio mio… per gli Dei, che cosa hai fatto…»
La corsa del giovane fu interrotta da alcuni armigeri che marciavano in senso opposto al suo, verso il campo di battaglia.
Nel mezzo dei due schieramenti.
Nel mezzo delle campagne coltivate da Doki.
« Fermo!»
« Mi chiamo Doki. Voglio combattere.»
« Non essere sciocco. L’esercito di Narmer non è un luogo adatto ai fanciulli»
« Lo so. Ma voglio combattere ugualmente.»
« Sei solo un ragazzo, scansati e lascia ai soldati la guerra. Torna alle tue campagne.»
« Proprio perché si tratta delle mie campagne, della mia terra, io voglio combattere.»
« Va via, vai a rifugiarti! Non te lo ripeterò.»
« E dove dovrei rifugiarmi? La mia casa sarà rasa al suolo da voi e dai vostri nemici. I miei campi saranno distrutti e non avrò di che mangiare per questo nuovo anno. Ed allora che cosa devo fare, se non combattere? Almeno potrei uccidere alcuni di quelli che minacciano la mia terra. Potrei difenderla!»
Un altro soldato, tronfio nella sua casacca di cuoio, la picca dalla punta di rame ben salda in mano, si voltò e prese la parola: « Se sei così pazzo da voler morire quest’oggi, accomodati pure. Ma non essere d’intralcio ai veri uomini. »
«Grazie. Dove prendo la mia picca?»
«La picca è per i soldati. Prendi il tuo forcone, se proprio vuoi combattere»
Per gli Dei…
Lo stava prendendo il giro!
Quel soldato si stava prendendo gioco di lui.
«Io combatterò anche con il mio forcone, se necessario.»
« Accomodati. Buona morte»
«Ci rivedremo al termine di questa battaglia»
«Non ne sarei così sicuro.»
Nel tempo di un battito di ciglia Doki impugnò l’elsa della spada del soldato, riposta nel fodero appeso alla cintola che reggeva il cingilobi di lino, parte della divisa dei soldati del Delta.
Si voltò verso il campo di battaglia e si lanciò in una corsa disperata verso il nemico.
Il soldato depredato della sua arma maledì il giovane sfrontato.
Ma lui lo sapeva, avrebbe presto recuperato la sua arma dalla mano di Doki, colpito a morte ai primi tafferugli.