Numero 37/2020
13 Settembre 2020
Ristretta, ma non “da meno”: Acido Acida 2020!
Edizione “ristretta”, ma che non per questo ha fatto rimpiangere le precedenti: potremmo trarre questo bilancio dal festival dedicato alle birre britanniche Acido Acida, eccezionalmente spostato a settembre (dal 4 al 6) dall’usuale data di aprile a causa dell’emergenza Covid, manetnendo comunque l’usuale collocazione del chiostro di Santa Maria della Consolazione a Ferrara.
Per quanto il lockdown e le conseguenze difficoltà poste al movimento (sia di uomini che di merci) da e per l’Inghilterra abbia avuto inevitabili ripercussioni, con un calo tangibile delle birre e dei birrai presenti, non è stato soltanto uno slogan o una vaga promessa quella secondo cui la qualità non ne avrebbe risentito: prova ne è il fatto che chi scrive, visitando la kermesse la domenica, ha dovuto depennare una buona metà delle birre che avrebbe voluto assaggiare perché erano già finite (in particolare la sezione delle birre affinate in botte, sostanzialmente saccheggiata). Va detto che la quantità disponibile era minore rispetto agli altri anni; ma lo era anche l’afflusso di pubblico a causa delle limitazioni poste dalle normative anti Covid, per cui non basta il calo della disponibilità a spiegare la cosa. Quindi chi c’era, evidentemente, ha apprezzato.
Anche in quanto a pubblico, il target è stato leggermente diverso: la necessità di prenotazione per entrare ha sostanzialmente tagliato l’avventore “occasionale”, spostando l’utenza – come confermato anche dall’organizzatore, Davide Franchini – sul pubblico “appassionato”. Il che, a detta di più o meno tutti gli operatori, non è stato un male, e non necessariamente ha fatto rimpiangere le maggiori potenzialità di incasso dovute a un pubblico più ampio.
Venendo alle birre: gran predominanza di sour e fruit sour, a scapito dei “classiconi” inglesi (comunque presenti, anche se meno in forze rispetto allo scorso anno, quando avevano viceversa fatto la parte del leone). Se sia meglio o peggio è questione di gusti, ma è anche vero che si trattava per la maggior parte di sour pensate per risultare attrattive anche al pubblico generico: vuoi per la frutta tropicale, vuoi per il cacao, vuoi per affinature in botti con vini “di richiamo”, le sour davvero solo per i patiti non erano molte. Il che ha ovviamente un senso per un festival non rivolto solo ad una nicchia ristretta.
In realtà ho iniziato con una birra che sarebbe andata piuttosto tra le ultime, ossia la Vingraf 2016 di Antica Contea (uno dei birrifici italiani ospiti): ultimo fusto quasi alla fine, prendere o lasciare (e quindi prendere). Trattasi di una Iga con mosto di Sauvignon dell’azienda agricola Casa delle Rose di Ruttars, maturata in tonneau di rovere. In un primo momento a fare da padrona è la fruttatura, una girandola di aromi che arriva a toccare persino qualche nota di frutta tropicale; poi, al salire della temperatura, emerge anche la componente del legno, che rimane comunque ben bilanciata nel gioco con la fruttatura, prima di un finale secco e di un acidulo fresco. Si conferma, nelle varie annate (avevo già provato la 2014 e la 2015), una birra ben riuscita.
Venendo alle fruit sour, sono partita con quelle del canadese Collective Arts Brewing; che a mio avviso si distingue, almeno per quelle che ho provato, per una netta tendenza a far prevalere la frutta. Cito ad esempio la Pina Colada, con lattosio, cocco e ananas; e la Blueberry with Cocoa Nibs, con mirtilli e cacao. Senz’altro gradevoli da bere e dall’acidità ben smorzata dalla frutta, forse eresia per coloro che usano inveire contro le birre che assomigliano un po’ troppo a succhi di frutta. Più equilibrata la “Si sente che è diversa”, Apa con mango aggiunto in fermentazione del goriziano The Lure (altro ospite italiano), in cui la frutta si armonizza in maniera equilibrata con la luppolatura e con l’acidità stessa, che ha un suo ruolo nel mantenere il gioco d’insieme.
Meno scontata sotto questo profilo la Fake Bake di Overworks, che sulla carta sembrava – a dispetto del nome – una vera e propria torta frangipane, a cui afferma di essere ispirata: una pastry stout con marmellata di ciliege e mandorle, maturata in botti di rye whisky. Incredibile a dirsi, ma è e rimane una birra, in cui la base di stout gioca a rincorrersi con la frutta e la mandorla. Finale pulito grazie all’acidità elegante, senza persistenze stucchevoli, e più secca di quel che ci si potrebbe aspettare.
Chiudo dedicando qualche riga al dialogo che ho avuto il piacere di condurre con Hellsandro, artista goriziano che disegna le etichette delle lattine di The Lure. Un dialogo che ha messo in evidenza, se mai ce ne fosse stato bisogno, come la questione del design delle lattine e della lattina “come opera d’arte” stia diventando anche in Italia una faccenda serissima; e come si stia esplorando, sia da parte dei birrai che degli artisti, il legame tra arte e birra. Nel caso di specie, poi, è curioso notare come non ci sia solo una questione di identificazione tra disegno e birra, ma la volontà di raccontare una vera e propria storia, una sorta di fumetto, legato in qualche modo alla birra in questione. Una via già esplorata da altri, ma che qui ha raggiunto forme di compiutezza che non mi era capitato di vedere prima.
Intanto Acido Acida ha già annunciato che anche per il 2021 manterrà la data di fine estate, dal 2 al 5 settembre, dati i tempi tecnici necessari per organizzare una nuova edizione in tempi in cui ancora sussistono limitazioni ai viaggi e agli eventi; con un’edizione interamente dedicata a Londra e alle sue birre.