Numero 39/2016
1 Ottobre 2016
I Contrabbandieri di Birra – Capitolo 1
Pioveva quel giorno.
Marzo inoltrato, l’inverno rigido e severo che cedeva il passo ad una primavera dal passo incerto, ancora sonnecchiante.
La neve ai bordi delle strade, sottesa ai coni d’ombra creati dai palazzi e dalle chiese, ancora resisteva al tepore che iniziava ad aumentare un giorno dopo l’altro.
Ma era ancora lì, tenace, caparbia… il clima duro di una terra dura.
Fossano era così.
Una cittadina tutto sommato ridente ed abbastanza prospera che aveva visto momenti migliori ma anche annate peggiori.
Sita nella pianura padana, a circa sessanta chilometri dalla vecchia capitale d’Italia, Torino, poco aveva a ché fare con quella grande città.
Torino era un crogiuolo di attività, vitale, moderna; Fossano era la tipica cittadina agricola.
E come tale restava attaccata alle proprie tradizioni, legate ai lenti ed inesorabili ritmi di Madre Natura.
Certo, l’analfabetismo era fortemente presente, come anche il disinteresse verso le nuove tendenze di musica, moda, sui nuovi miracoli della tecnologia…
Nel bene e nel male, però, la vita scorreva tranquilla e poco importava ai fossanesi che cosa succedeva a Roma, la nuova Capitale.
Da qualche anno si era insediato al Governo quello che per il popolo era divenuto una specie di Messia: Benito Mussolini.
Stava facendo grandi cose, a detta di tutti: bonifiche, infrastrutture, aveva aumentato i salari; insomma, aveva rilanciato il Paese… O per lo meno quella era l’impressione di tutti. Le radio non facevano che tesserne le lodi, nei cinematografi stupendi filmati, i giornali, per i pochi che sapevano leggere, densi di sue ispiranti parole.
Aveva perfino dato la possibilità a tutti i bambini di studiare, di imparare a leggere e scrivere e a fare di conto!
Certo, per la vita agricola erano tutte cose di poco conto, ragionando come ragionavano gli anziani, ma per Giuseppe Vinai, classe 1909, il Duce aveva ragione.
Lui, giovane della provincia, aveva vissuto per tutta la sua infanzia la Guerra, con tutte le difficoltà italiane derivate da quella vittoria “Mutilata”. Di solito, quando uno Stato si siede al tavolo dei vincitori, ne ricava un bel bottino di guerra, questo perfino un agricoltore come Giuseppe lo sapeva!
E invece era andata diversamente.
Risultato?
In tutta Italia la miseria della guerra era divenuta l’angoscia di tutti i giorni che seguirono la fine del conflitto.
Un Paese stagnante, un’economia in recessione e poi… quel fattaccio nel 1929… quel “venerdì nero della Borsa di Wall Street”.
Giuseppe non sapeva che cosa fosse quel “Wall Street”; sapeva solo che erano aumentate le tasse da allora.
Ed anche in quell’occasione, sicuro di sé e sempre osannato dalle folle, Mussolini aveva dichiarato che l’Italia sarebbe risorta ancora una volta!
E così era stato.
Le tasse non erano più così opprimenti in quel 1931 che si stava affacciando alla bella stagione.
E Giuseppe, dal canto suo, era orgoglioso di ciò che stava andando a fare.
Ventunanni compiuti il giorno prima: era diventato maggiorenne.
Lui non viveva in centro a Fossano, ma in un piccolo paesino rurale alle porte del centro cittadino; lui era nato e cresciuto a Trinità.
E Fossano, per quanto modesta fosse rispetto a molti altri centri urbani piemontesi ed italiani, per lui rappresentava un mondo diverso da quello quotidianamente vissuto.
Strade lastricate, case che si ergevano fino a 5 piani, una moltitudine di macchine, negozi di ogni genere e poi le donne!
Lui era abituato a vedere anche le donne, siano state giovani o meno giovani, vestire i panni di campagna, ruvidi e resistenti, adatti al lavoro. In città, invece, molte donne vestite di abiti ricamati, graziosi ombrelli da passeggio ed in testa agli uomini non mancava mai un cilindro in tinta con il bastone da passeggio.
Un altro mondo.
Un mondo diverso.
Un mondo migliore.
Ma una cosa accomunava tanti membri di quella società così disomogenea, caratterizzata da mille ed una estrazioni sociali: il Partito.
Il Partito Fascista era il minimo comun denominatore, in quegli anni; dai nobili agli operai, dai Professori agli agricoltori, tutti, o quasi, avevano nel taschino interno della giacca o in quello posteriore del pantalone la Tessera del Partito.
Giuseppe camminava per via Roma, la via centrale di Fossano.
Il Duomo, che aveva visto di rado durante la sua vita, ogni volta gli incuteva un senso di rispetto e di magnificenza.
Di fronte ad esso, pochi passi in diagonale, in vero, il municipio sventolante le bandiere del Regno al riparo dei portici cittadini.
La sua meta era spostata ancora di una ventina di metri, giusto a lato del palazzo pubblico: la sede del Partito del Fascio.
Una vetrina alta ben più di un uomo, adorna di manifesti politici inneggianti il Duce, fotografie di lui mentre andava a cavallo, mentre spietrava un terreno o mentre accatastava il fieno, facevano da contorno ad altre immagini dove Mussolini troneggiava in alta uniforme, fiero ed impettito.
Sarebbe stato chiaro e cristallino perfino ad un cieco che quella era la sede del partito.
Giuseppe spinse la porta, il fare timido ed impacciato di un giovane uomo in soggezione.
«Buon… Buongiorno» esordì educatamente lui, rivolgendosi all’impiegato seduto alla scrivania.
Di tutta risposta, l’uomo sulla quarantina scattò in piedi, petto in fuori e mento alto.
«Buongiorno!» disse in tono imperioso esibendo un saluto romano perfetto.
Giuseppe restò quasi impietrito.
L’uomo, conscio di aver lasciato il segno nel ragazzo, parlò sempre con lo stesso vigoroso tono:
«Giovane, non lo sai che il saluto Romano è il segno distintivo di ogni buon Fascista?»
«Sì, certo, ma io…»
«Ma io niente! Il rispetto è alla base di tutto! Voi giovani, prima ancora di parlare con un uomo più saggio e maturo, dovete rivolgervi a lui nel modo più consono. Qui dentro si saluta con il braccio alzato. Avanti, giovanotto!»
Giuseppe, arrossito per l’imbarazzo, esibì un insicuro saluto romano.
«Mi sarei aspettato un po’ più di vigore da un Italiano nel fiore della prestanza fisica. Ma mi accontento. Dimmi, ragazzo, che cosa ci fai qui?» proseguì l’uomo facendo segno a Giuseppe di accomodarsi sulla sedia di legno dinnanzi alla sua scrivania.
«Io… io mi chiamo Giuseppe Vinai e sono di qui, sono di Trinità. Sono venuto in città oggi perché son diventato maggiorenne ieri e…»
«Ah, che gioia! Un giovane che diviene uomo! Ho capito, infine, perché sei qui! Come ogni Italiano che ama la sua Patria e meriti questa Nazionalità, vuoi infine divenire un vero uomo Fascista, dico bene?»
«Esatto! Il Duce ha fatto tanto per l’Italia e la mia famiglia è divenuta proprietaria dei campi che coltiviamo grazie a lui! Mi sembra doveroso esprimere la mia gratitudine, anche se non sono nessuno e…»
«Tu non sei nessuno? Tu sei un Italiano e da oggi sarai un fiero Fascista! Non vi è onore più grande, te lo assicuro! Non vi è pregio od onorificenza maggiore della tessera del Partito!»
La filippica dell’uomo continuò ancora per dieci minuti abbondanti; Giuseppe fu ammaliato dalle parole ricercate, dal tono forte ed autoritario e dall’enfasi dimostrata.
Consegnò all’impiegato la tessera di Giovane Fascista. L’impiegato la strappò, dopo aver copiato in bella grafia i suoi dati su di una nuova tessera, scritta tricolore su sfondo nero.
Anche nell’imprimere i timbri di autenticazione, pensò Giuseppe, si vedeva che quell’uomo era un fascista orgoglioso… come lui stesso.