Numero 41/2016
15 Ottobre 2016
I Contrabbandieri di Birra – Capitolo 3
«Oh, Signore, che freddo!»
«Smettila, Alberto! Se continui così farai venire freddo anche a me!»
«Non capisco come fai, Giuseppe! Insomma, siamo qui, in una buca che abbiamo scavato nel ghiaccio di questa stramaledettissima montagna da ore e tu non hai freddo?»
«Certo che ho freddo! Ma non sto congelando… né spreco energie inutili a piagnucolare come una femminuccia!»
L’addestramento da Alpino del Regno era duro.
Erano cinque settimane, ormai, che Giuseppe era partito.
Aveva lasciato il suo caldo letto per ottenere una branda scomoda e delle ruvide coperte. Era partito militare ed era di stanza in una caserma di confine, nelle alpi del Torinese.
Dopo Susa, ancora per chilometri fino a Sauze d’Oulx.
Un nome francese.
Un nome che il Duce detestava.
Un nome che ogni Vigoroso, Italico Fascista non poteva tollerare!
Per decreto del Governo, ogni nome straniero, da quelli in francese nelle valli Piemontesi, a quelli Austro-Ungarici o Tedeschi delle valli del Trentino, tutti i nomi di luoghi siti entro i confini Italiani dovevano esser pronunciati in Italiano.
Sicché la caserma nella quale prestava servizio era sita nelle vicinanze di Salice l’Ulzio.
E lì, in cima alle montagne, ad ore ed ore di cammino dalla civiltà, vi erano dei ghiacciai perenni.
L’addestramento che Giuseppe ed i suoi commilitoni dovevano seguire era duro.
Avevano cominciato con lunghe marce, atte a fortificarli nel corpo e nello spirito.
Quelle eterne camminate, infatti, servivano per far provare loro dolore, il ché li avrebbe formati allo spirito di sacrificio ed alla resistenza fisica, ed in più servivano a frustrare i soldati, visto che quella attività era sempre la stessa, noiosa ed inconcludente. Questo esercizio azzerava la capacità di ragionamento “critico e ribelle”; passo dopo passo la rassegnazione a dover obbedire senza fiatare agli ordini dei superiori prendeva il sopravvento, anche quando sembrano privi di senso, ma era esattamente quello che si chiedeva a dei soldati di fanteria.
Questo era indispensabile per mantenere l’ordine, la disciplina ed era anche ciò che permetteva ai plotoni di esser coordinati e di muoversi come un sol uomo. Il tutto portava alla vittoria… o ad un onorevole massacro.
Ma la filippica e le tattiche militari non erano affare di Giuseppe.
Il suo pane quotidiano era la fatica.
Ed in quella quinta settimana di addestramento, anche il freddo.
Erano saliti in quota quella mattina, il sole del fondovalle era splendente e tiepido.
Lassù, invece, i gelidi venti alpini sferzavano con violenza chiunque osasse avventurarsi per quelle lande, simili a lame che sfregiavano i volti. Erano gli stessi venti che, riscaldandosi a mano a amano che l’altitudine diminuiva, davano un po’ di refrigerio agli abitanti della torrida Pianura Padana durante le afose giornate estive.
I militi avevano scavato con picche, pale e vanghe il terreno ghiacciato dell’aspra montagna, onde ricavare delle buche abbastanza grandi e profonde da fungere da riparo per due persone contro quel gelido vento che, di notte, raggiungeva vertiginosi picchi di velocità e di bassa temperatura.
Alberto e Giuseppe erano stati messi in squadra insieme.
Alberto, quello che si stava lamentando troppo per il freddo, era un cittadino, figlio di noti commercianti di Torino.
La vita sempre agiata, gli studi nelle scuole migliori che il denaro potesse comprare nella ex Capitale… insomma, non aveva mai dovuto sporcarsi le mani.
L’unico sudore che aveva imperlato la sua fronte era quello portato dal solleone estivo…
Un sudore ben diverso da quello ricavato dalla fatica dei campi.
Se Alberto fosse nato in un’altra famiglia, una di quelle dal sangue blu, avrebbe frequentato il corso da ufficiale del Regio esercito.
Invece no!
Ed il giovane malediceva, tra un brivido e l’altro, quel suo infausto destino.
Giuseppe, dal canto suo, riteneva che la vita avesse arriso già fin troppo al commilitone: insomma, la cultura, l’assenza di fatica nella sua vita, la presenza di tante ragazze ai festini nella villa cittadina del padre di cui si vantava ogni cinque minuti… una bella vita, insomma.
Ma come spesso insegna la vita, ciò che viene dato viene poi richiesto con gli interessi! E l’agiatezza di Alberto si traduceva, in quel momento, nella scottante verità: lui non era per nulla adatto alla sopravvivenza.
Beninteso, anche Giuseppe pativa quel freddo pungente, ma lui era stato temprato dalle pratiche colturali invernali, la potatura, il rifacimento dei recinti per le bestie, le piccole e grandi ristrutturazioni della stalla; il tutto sempre sotto all’incessante voluttuosità del clima, sotto la neve e la pioggia, immerso nella nebbia oppure al chiaro (e freddo) di luna.
«Se stai veramente congelando, lascia quel dannato fucile ed abbracciami» disse infine Giuseppe, stufo del continuo lamentio di sottofondo.
«Non… non sarai mica quel genere di persona?»
«Quale genere di persona?»
«Quelle… si insomma quei ragazzi a cui piacciono i ragazzi…»
«Sei un idiota! Se non hai un fuoco con cui scaldarti e, se non lo hai notato, non ce lo fanno accendere, il modo migliore per scaldarsi è il calore umano di un’altra persona. Ma io lo dicevo per te, arrangiati!»
«No, no… ti ringrazio… è che non volevo… insomma, volevo chiarire le cose e…»
«Lo sai come si dice dalle mie parti?»
«Come si dice?»
«La gallina che canta per prima è quella che ha fatto l’uovo! Quindi, se hai quel tipo di… tendenza… beh, stattene lì, se no, vieni pure!»
«No, certo che no! D’accordo, vengo».
Lo scopo dell’esercitazione era quello di sopravvivere al freddo in un riparo di fortuna, restando svegli e vigili, armi in pugno. Chi si addormentava rischiava la vita.
Giuseppe fece parlare a voce bassa il commilitone per tutta la notte.
L’alba li trovò con uno strato di brina sui cappotti delle divise, ancora abbracciati.
Il mattino prevedeva che tutti i gruppi di due iniziassero a scavare nel ghiaccio, creando una specie di grezza trincea, unendo i diversi ripari gli uni con gli altri.
Non bastò un giorno.
Non ne bastarono due.
Il freddo era sempre più pungente, Alberto sopportava sempre meno quella situazione.
Anche Giuseppe cominciava a percepire in modo più acuto l’intensità del freddo.
Il terzo giorno, verso sera, due trincee erano state infine formate.
Una di fronte all’altra.
«Bene, branco di femminucce!» esordì il sergente istruttore, un uomo sulla cinquantina, portandosi in mezzo alle due trincee formatesi «Vi comunico ufficialmente che se ci avessimo messo così tanto tempo a scavare delle fottute trincee durante la guerra, l’avremmo persa! Ora: quelle che avete in dotazione sono armi scariche. Vi verranno fornite ora delle baionette smussate e senza filo. Come spero la maggior parte di voi potrà notare, queste lame sono colorate di rosso. Non è un vezzo da nobildonna, signorine! È una polvere sparsa sulle lame apposta. Questa notte, la squadra che sta alla mia destra difenderà la sua trincea dalla squadra alla mia sinistra che tenterà un assalto alla baionetta».
Un brusio di sottofondo animò i militari, subito zittiti dai caporali sottoposti al sergente,che riprese a spiegare.
«Immaginando che il vostro livello di intelligenza sia paragonabile a quello di un mulo da soma, vi spiego perché si chiama “attacco alla baionetta”. Di notte, nelle trincee, alcuni riposano ed altri stanno di vedetta. Di notte, come immaginerete, la visibilità è scarsa. Se un plotone tenta un attacco dovrà farlo nel modo più silenzioso possibile, giusto? Quindi si eviteranno colpi di arma da fuoco che, oltre al rumore, producono uno strano effetto, ossia la luce della deflagrazione. Questo sarebbe scomodo, sia perché tutti i difensori si sveglierebbero, sia perché, grazie alla luce, i difensori potrebbero capire da che parte giunge il nemico. Quindi il modo migliore di uccidere il nemico, di notte, in trincea, è con la baionetta. Rapida, silenziosa e letale. Ora: la polvere rossa che c’è sulle vostre lame aderirà perfettamente alle vostre divise, una volta toccati da esse. Pertanto, se sarete toccati e quindi marchiati, dovrete alzare le mani e venire, camminando, verso la tenda dei graduati. Sarete eliminati dall’esercitazione in quanto, in un vero campo di battaglia, sareste morti. Lo scontro si concluderà non appena tutti i membri di un plotone saranno stati colpiti e marchiati. Tutto chiaro?»
«Sì, Signor Sergente!» fu la risposta corale.
«Un paio di precisazioni: l’attacco sarà autogestito, ossia potrà avvenire a qualunque ora della notte, io non c’entrerò nulla con ciò. Quindi sta alla squadra che attacca attendere il momento più propizio e a quella che difende mantenere saldi i nervi. Seconda puntualizzazione: sono quattro giorni che non dormite. Il freddo ed il sonno giocano brutti scherzi e so che siete al limite della sopportazione. Non voglio scoprire che vi siete ammazzati realmente, questa notte! Ulteriore avviso per quelli che tra voi si ritengono più furbi degli altri: se, vista stanchezza e freddo, credete di autoeliminarvi per poter giungere finalmente al riparo della tenda, dove c’è uno scoppiettante fuocherello, SCOR-DA-TE-VE-LO! Chi risulterà morto attenderà sugli attenti la fine della battaglia fuori al vento, immobile. Tutti i membri della squadra che perderà e tutti i caduti della squadra vincente saranno costretti a tornare a valle, domani mattina, a petto nudo, come punizione! Questo vi insegnerà che combattere fino allo stremo per il Regno e per il Duce è di gran lunga preferibile alla morte, ai sotterfugi ed al tradimento! Tutto chiaro?»
«Signorsì, Signore!» di nuovo la risposta corale.
«Bene, il sole calerà tra un’oretta. Mangiate, tentate di scaldarvi e preparatevi. Questa sarà la vostra prima battaglia!»
Giuseppe era eccitato e preoccupato allo stesso tempo; non voleva tornare a valle mezzo nudo… sia per il freddo, sia per il suo orgoglio!
Che figura avrebbe fatto se avesse perso?
O, peggio ancora, se la sua squadra avesse vinto e lui fosse morto in azione?
L’onta sarebbe stata certamente maggiore e lui, di certo, non voleva assumersela!
Mangiò.
Bevve due bicchieri di Vin Broulée o “vino caldo”, come si chiamava in Italiano.
Si preparò.
Quella notte sarebbe stato un difensore.