Numero 23/2017
10 Giugno 2017
I Contrabbandieri di Birra: Capitolo 34
Giuseppe era lì, sdraiato nel letto.
Nelle ore notturne aveva scucito, con i denti, il bordo, l’angolo alto del suo materasso.
Era riuscito a trovare una molla, l’aveva torta e ritorta.
Era riuscito a reciderne un pezzo.
Un pezzo lungo qualche centimetro.
Un pezzo abbastanza lungo da uccidere una persona, se usata come stiletto.
Erano passati altri due giorni.
Altre due, interminabili, scene di abusi.
O’Gigante l’avrebbe pagata.
Quel bastardo godeva nel vedere lo sguardo attonito di Giuseppe mentre abusava di Pietro.
Ed il fratello, sempre più livido in ogni parte del corpo, non avrebbe retto a lungo quella situazione.
Ne era sicuro.
Giuseppe doveva are qualcosa.
Qualcosa di drastico.
Qualcosa di definitivo.
Era riuscito, facendo in silenzio, a ricavare un’arma.
Ora doveva solo attendere l’occasione giusta!
Ma essa non giungeva.
L’unica occasione che, forse, sarebbe stata buona, sarebbe stata la doccia.
Ma quei maledetti secondini facevano fare le docce di cella in cella.
E lui non riusciva ad avvicinarsi.
Durante l’ora d’aria, dove tutti i detenuti dovevano camminare in fila indiana lungo il perimetro del cortile per un’ora, non poteva neppure provare ad avvicinarsi, pena manganellate a non finire.
Durante le ore di lavori forzati erano legati con catene alle caviglie, avrebbe dovuto trascinare tutti i suoi compagni di cella fino al gruppo della cella del suo obiettivo… improponibile, nessuno di loro sarebbe stato complice dell’omicidio di O’Gigante.
Come fare?
Come mettere fine alle sofferenze del suo amato fratello?
Non poteva permettere che Pietro morisse di stenti e di torture.
Non poteva assolutamente!
Quel mattino, il terzo da quando si era svegliato in cella, gli venne un’idea.
Aveva notato il giorno prima, che un uomo che era rinchiuso nella cella accanto a quella di suo fratello era stato male.
Una brutta influenza intestinale, aveva sentenziato il medico…
L’uomo era imbrattato dai propri escrementi quasi dalla testa ai piedi ed allora, schifati, i carcerieri lo avevano condotto alle docce, nel medesimo momento in cui si trovavano altri prigionieri, quelli provenienti da una cella lontana, non visibile dalle sbarre della sua.
Ecco qual’era la soluzione.
Drastica come quello che avrebbe fatto a O’Gigante.
Restava da capire come sarebbe riuscito ad uccidere quell’energumeno, attorniato com’era dalla sua combriccola di accoliti.
Ma questo sarebbe stato un passaggio successivo.
Quella notte, dopo aver visto l’ennesima oscenità perpetrata nei confronti del fratello, decise che era giunto il momento di intervenire.
Decise di trattenersi, decise che il giorno successivo non sarebbe andato in bagno.
Questo avrebbe provocato, senza ombra di dubbio, un attacco di dissenteria. La sua occasione!
durante la notte, il giovane, riuscì a strappare un altro pezzo di molla.
Un’arma in più.
O una di riserva, comunque.
Verificò di poterle infilare in bocca, per evitare che i secondini riuscissero a scorgerle e, quindi, sequestrargliele.
Ce la faceva.
Il piano stava prendendo forma.
D’un tratto sentì degli occhi puntati, in quella notte lugubre e buia oltre ogni dire.
Solo la tenue luce di un piccolo spicchio di luna permetteva a chi lo osservava di percepire che cosa stava facendo:
«Che diavolo fai?» gli chiese sottovoce Andrea, l’uomo che lo aveva accudito quando era giunto in cella incosciente.
«Fatti gli affari tuoi!» rispose con un sibilo Giuseppe.
«Non mi dirai che hai intenzione di fare quello che penso, vero?»
«Sì! Domani sarà il giorno!»
«E come diavolo pensi di fare? Quando, soprattutto! Quei cani degli agenti non ci fanno mai uscire insieme a loro. Sanno che tu vuoi vendicare tuo fratello, lo immaginano…»
«Non ti preoccupare… ho un piano!»
«Il suicidio è compreso in questo piano? Perché la morte è ciò che ti attende!»
«Non mi interessa! È colpa mia se Pietro si trova in gabbia! È compito mio evitare che muoia per gli abusi di quel figlio di un cane!»
«Ti capisco, ma hai almeno due problemi…»
«Perché non te ne torni a dormire, per Dio! Lasciami al mio piano!»
«Perché per quanto tu sia un pazzo maledetto, voglio aiutarti!»
«Trova un modo per isolare quel cane, altrimenti non vedo come tu possa essermi utile!»
«Ascoltami, se proprio non vuoi desistere, almeno lascia che ti avvisi: O’Gigante non è l’unica minaccia che ti troverai di fronte! O’Scugnizzo è il suo braccio destro. Lo vedi, è sempre in fondo alla cella che si fa gli affari suoi. È un omicida, è uno degli elementi più pericolosi che c’è qua dentro! È una bestia, le storie che si raccontano su di lui, narrano che abbia scuoiato almeno venti persone come io e te potremmo fare con altrettanti capretti! Anche se è basso ed esile, sta sicuro che è lui la grande minaccia che ti troverai davanti! Uccidi prima lui! Se ti fiondi subito sul Gigante… morirai prima di aver completato il tuo piano!»
«Bene… non sarà un problema!»
«Fidati… quel nano malefico E’ un problema! Pugnalalo alle spalle. Io ho visto come si organizzano alle docce. O’Gigante sarà impegnato sotto la doccia con tuo fratello, gli altri faranno la doccia molto distanti da lui, per non importunarlo. L’unico che guarderà con attenzione che Pietro non si ribelli, sarà O’Scugnizzo. Quindi potrai colpirlo alle spalle! Gli altri saranno troppo lontani per intervenire in tempo: avrai una sola possibilità di pugnalare quella feccia del Gigante! Non sprecarla! I pavimenti sono veramente scivolosi, stai attento!»
«Perché mi vuoi dare una mano? Che cosa ci guadagni?»
«Tu… non sai…»
«Raccontami!»
«Sono cambiate tante persone in questa cella. Io sono uno dei più longevi, a livello di permanenza in questa prigione… ci sono da cinque anni.»
«Che cosa hai combinato?»
«Un banalissimo furto…»
«E per quanto dovrai stare ancora qui?»
«Almeno vent’anni»
«Per un furto?»
«Non è per il furto che ho avuto questa enorme condanna… mi hanno arrestato con mio figlio… ed ai tempi c’era un omologo del tuo amico. E mio figlio fece la fine di tuo fratello. Ma io non riuscii ad uccidere il porco… mio figlio, invece, venne ucciso dagli agenti mentre sedavano la rissa che avevo scatenato. Mi hanno condannato ad altri vent’anni… ma il problema mio è quello di non aver vinto quella battaglia e di aver perso mio figlio! Per questo parteggio per te, amico mio! Non ci conosciamo bene, questo è vero… ma questa nostra somiglianza ci rende quasi… fratelli…»
Giuseppe non seppe che cosa risponder a quelle rivelazioni così toccanti… cercò le parole giuste e, forse, quelle due che gli uscirono dalle labbra, furono esattamente quelle perfette:
«Grazie, Fratello!»