Numero 26/2017
1 Luglio 2017
I Contrabbandieri di Birra: Capitolo 37
Giuseppe era lì, nudo come un verme e sporco altrettanto, in piedi.
Era stato trascinato per le braccia in un luogo il cui pavimento era freddo.
Gli formicolava tutto il corpo, la sensibilità non era ancora tornata del tutto.
La luce lo abbagliava.
I suoni erano incomprensibili, quasi come se i timpani si fossero, anch’essi disabituati ad essere utilizzati.
Non capiva gli stimoli a cui era sottoposto, stare in piedi era faticoso, sentiva spesso cedere le gambe e l’equilibrio era più che precario.
Qualcuno lo afferrò per i polsi e glieli appoggiò a quella che, con ogni probabilità, era una parete.
Era altrettanto fredda, liscia con delle scanalature regolari.
Sì, ora Giuseppe non aveva più dubbi: lo avevano portato alle docce.
Trasse un sospiro di sollievo, a quel punto!
Non solo non sarebbe morto in isolamento, ma probabilmente lo stavano per lavare poiché il suo periodo punitivo era concluso!
Attese trepidante che un getto di acqua, seppur irruenta e fredda, gli levasse di dosso le croste di sudiciume che ormai ricoprivano il suo intero corpo.
Tremava dall’emozione.
I sensi stavano tornando, lentamente ma inesorabilmente.
Giuseppe continuava a sbattere le palpebre, quasi come se fosse un riflesso incondizionato che potesse migliorargli la vista.
E la cosa funzionava.
Attese ancora, un’altra serie di suoni che non comprese ma che, sicuramente, erano voci umane, giunsero alle sue orecchie e poi, finalmente, percepì che la sua schiena e la sua nuca erano state colpite da un gelido getto di acqua.
Sentire il lerciume scivolargli via di dosso fu una sensazione stupenda.
Lo fecero voltare, la schiena appoggiata al muro; il getto che mondava anche la parte frontale del suo corpo.
Quando la doccia terminò, i suoi sensi erano tornati quasi del tutto.
Sembrava come se l’acqua avesse lavato via anche la sua infermità. Le gambe non formicolavano più, si sentiva ancora spossato, ma il tutto era più sopportabile.
Riconobbe i carcerieri crudeli, quelli che avevano condannato suo fratello a divenire la sgualdrina di O’Gigante, gli stessi che li avevano poi condotti in isolamento.
«Dove diavolo è mio fratello?» pretese di sapere, usando una voce roca, le corde vocali affaticate dalla disidratazione e dall’inutilizzo.
«Non hai imparato nulla in isolamento? Ti ci ributto subito, eh!»
Giuseppe non rispose, ma lanciò uno sguardo di odio e di sfida difficile da equivocare.
Senza rispondergli, le guardie gli porsero un asciugamano ed in seguito dei vestiti puliti.
Lo condussero su di una camionetta, una di quelle usate per il trasporto dei detenuti.
Già seduto nella gabbia posta dietro all’abitacolo del guidatore e della scorta, vi era Pietro.
Anche se incatenato mani e piedi, Giuseppe accelerò, abbozzando una corsetta, per quello che gli consentivano di muoversi le catene.
Salì in fretta e furia a fianco del fratello:
«Pietro! Pietro! Come stai?»
Lo abbracciò e lo baciò.
I due fratelli si strinsero e piansero dalla gioia.
«Sono stato meglio, Giuseppe, tu?»
«Mi hanno appena liberato da quel tugurio… tu? Da quanto sei fuori?»
«Da poco anche io… è stato terribile…»
«Ora è tutto finito, non ti preoccupare!»
«Speriamo!»
«Sai dove ci stanno portando?»
«Ho sentito prima le guardie che parlavano del tribunale… ci processeranno…»
«Hai visto un avvocato?»
«No… credo che lo conosceremo lì…»
«Già… a noi poveracci spettano solo gli avvocati d’ufficio… sempre che ce lo assegnino!»
«Ho paura…»
«Anche io! Ma non ti preoccupare, finchè saremo insieme, noi…»
«Finché staremo insieme? Ti rendi conto di cosa stai dicendo? Finché staremo insieme?»
«Calmati, fratellino!»
«Da quando sei tornato dal servizio di leva siamo stati insieme! E cosa ci ho guadagnato? Sono finito in galera, sono diventato la puttana di un pervertito, ho ucciso e sono stato per Dio solo sa quanto tempo in isolamento a rotolarmi nella mia merda! E tu mi dici che andrà tutto bene finché staremo insieme?»
«Fratello… io…»
Il silenzio calò.
Dopo un paio di minuti, la mano di Pietro si appoggiò sul ginocchio del fratello:
«Ti chiedo scusa, Giuseppe… non è colpa tua… »
«E invece sì! Se non avessi avuto quell’idea malsana di contrabbandare birra, se solo…»
«Quella è stata l’idea migliore che potessi avere!e l’abbiamo fatto tutti per salvare la nostra famiglia! La colpa non è tua… e di quella cagna che ci ha venduti!»
«Non siamo sicuri che sia stata lei…»
«Questo lo scopriremo una volta fuori di qui… e ti giuro, fratello mio, ti giuro sulla mia stessa vita, che chiunque sia l’infame che ci ha tradito, la pagherà!»
«Non ti basta essere già in galera?»
«Se mai ne usciremo, giuro che ammazzerò chiunque sia stato!»
Com’era cambiato, Pietro!
Da fragile ragazzino a uomo vissuto che, Giuseppe ne era sicuro, non si sarebbe fermato neppure davanti alla loro madre, pur di perpetrare la sua vendetta!
Non era però quello il momento di pensare alla vendetta…
Dovevano pensare a come difendersi in tribunale!
«Pietro, dobbiamo dire al giudice che O’Gigante ti violentava! Dobbiamo convincerlo che è stata una specie di legittima difesa! Un delitto d’onore, insomma!»
«Lo so!»
«Ce la faremo!»
Il tribunale era una grande struttura granitica, imponente.
Incuteva timore e rispetto e, nei due, incuteva un terrore apocalittico.
Era un palazzo nuovo, con al di sopra del bassorilievo con scritto “REGIA CORTE DI IUSTITIA” un’aquila campeggiante sopra ad un Fascio Littorio.
Il tribunale nuovo era un’opera Mussoliniana, imponente e marziale, come desiderava il Duce.
Scesero dalla camionetta ed entrarono nella struttura.
Andarono incontro al loro destino.
Pietro, più fresco di studi rispetto al fratello, mormorò, quasi a scacciare lo spauracchio del terrore, una frase tratta dall’opera Magna, Divina per eccellenza:
«Ci siamo: “lasciate ogni speranza, o voi che entrate!»