Numero 35/2017
2 Settembre 2017
I Contrabbandieri di Birra: Capitolo 46
Giuseppe osservava la situazione dalla sua postazione sopraelevata.
Poteva contare tre cani, pastori tedeschi dalle zanne lunghe e pronte a mordere.
Quei cani, Giuseppe ne era certo, erano stati addestrati per azzannare e dilaniare.
Non avevano solo la funzione di stanare, no…
Erano addestrati per uccidere, al pari dei mastini da guerra degli antichi Romani!
Gli animali, la bava alla bocca, sembravano rabbiosi.
Con ogni probabilità erano stati affamati e picchiati, per ingigantire la loro indole violenta…
Ed erano lì, lanciati in una frenetica corsa che li stava conducendo dalla sua famiglia!
Piegò leggermente il capo per guardare i suoi cari.
Pietro, il fucile in mano, fremeva.
Sua madre era rannicchiata, la testa fra le mani.
La paura la faceva tremare tanto che il cespuglio dietro al quale era nascosta vibrava.
I cani erano sempre più vicini, erano quasi a tiro anche per Pietro, inesperto nell’uso delle armi.
Lui, dal canto suo, non poteva aiutarlo.
Non avrebbe sparato ai cani.
La sua posizione era troppo vantaggiosa per rischiare di essere scoperto prima di aver abbattuto almeno due umani.
Da lì sopra avrebbe potuto fare fuori almeno due dei quattro nemici armati.
Se tutto fosse andato secondo i piani, degli altri due si sarebbe occupato il partigiano, quello esperto, nascosto nel sottobosco qualche passo più ad est.
Il partigiano che doveva sistemare i cani, assieme a Pietro, decise che gli animali erano giunti ad una distanza ottimale per far fuoco.
Sparò.
Un colpo.
Un altro colpo.
Un guaito.
Uno dei cani era a terra esanime.
«Merda! È troppo presto! Non li vedo ancora tutti!» disse tra i denti Giuseppe.
Una miriade di proiettili, come delle schegge impazzite, cominciò a riversarsi sopra alle teste delle persone rannicchiate.
“Ecco perché bisognava attendere! Ora scaricheranno tutti i proiettili che hanno a disposizione! Loro non riusciranno a reagire e a prendere la mira… e quei dannati cani continuano ad avanzare! Devo rischiare… devo uccidere io quei cani!” pensò Giuseppe.
Prese la mira, il dito sul grilletto.
Fece per farlo scattare.
Sentì un colpo esplodere vicino, molto vicino.
Il secondo cane cadde a terra.
Un altro colpo di precisione assoluta fece letteralmente a pezzi il cranio del terzo ed ultimo animale.
Poi, udì i passi svelti di un uomo che si allontanava.
«Ci sa fare, l’amico!» sussurrò il giovane appollaiato, lodando il partigiano che avrebbe dovuto colpire i soldati assieme a lui.
Ormai la sua posizione era bruciata, lo scoppio dei proiettili e la luce da essi generata aveva sicuramente attirato l’attenzione dei fascisti.
Infatti il nugolo delle quattro camicie nere iniziò a sparare nella direzione della posizione ad est che, fino a pochi attimi prima si trovava il suo compagno.
I proiettili raggiunsero il vuoto.
Giuseppe sentì però un sibilo, una sferzata di aria di fianco alla guancia.
Un proiettile gli era passato a pochi centimetri.
Non c’era più tempo!
Se anche fosse stato un colpo fortuito, non poteva attendere di scoprire se i suoi nemici avevano individuato la sua posizione oppure no!
Doveva sparare!
Imbracciò meglio la sua arma.
Prese la mira.
Trattenne il respiro.
Esplose il colpo.
Un rombo di tuono gli scosse i timpani.
Fu come se il mondo si fermasse.
Credette di percepire il rumore dell’impatto del proiettile.
STUMP!
Dritto in faccia ad uno dei suoi nemici che cadde a terra esanime.
Scarrellò rapido, prese nuovamente la mira e sparò di nuovo.
Questa volta il suo colpo andò a vuoto, frantumandosi su di una roccia alle spalle dei fascisti.
Un colpo provenne dal suo lato sinistro.
Pietro stava sparando, finalmente.
Due, tre colpi.
Nessuno andò a segno.
I fascisti cominciarono a scappare, due verso destra ed uno verso sinistra, bersagliati dal fuoco di Pietro e del partigiano al suo fianco.
Se fossero riusciti a mimetizzarsi nel bosco, sarebbe stato arduò colpirli!
Giuseppe prese ancora la mira.
BANG!
Aveva colpito alle reni un altro uomo che cadde con un urlo più simile ad uno squittio.
Il partigiano a fianco di Giuseppe colpì un terzo uomo.
Il quarto si dileguò nel bosco.
«Merda! Dobbiamo prenderlo!» esortò il partigiano.
«A che scopo?» chiese Pietro, ingenuamente.
«Se quel cane torna al suo comando e rivela dove ci ha visto, inizieranno le ricerche a tappeto… ed allora addio nascondiglio! Ci troveranno in pochi giorni!»
«Diavolo! Allora dobbiamo prenderlo!» Pietro, esaltato dall’adrenalina, sragionava.
Il partigiano fece per partire all’inseguimento.
Aveva percorso poco più di cinque metri,seguito a ruota dall’indomabile Pietroquando, poco lontano, udirono un ennesimo sparo.
Un urlo straziato seguito da qualche lamento.
Un secondo sparo.
Il silenzio.
Un silenzio tombale che pesava come un macigno.
Chi era stato colpito?
Il loro alleato oppure il nemico?
I secondi trascorsero.
I tre compagni d’arme, le armi in pugno erano pronti a sparare a vista.
Poi, ad un tratto, udirono una canzone:
«Se tu dall’altipiano guardi il mareeeee…»
«Cazzo! È sopravvissuto il fascio!» esclamò Pietro.
Il partigiano abbassò il suo fucile.
«Ragazzi, abbassate le armi!»
«Ma sei matto?»
«E’ un codice. Per far capire ai nostri compagni che siamo ancora vivi, quando non siamo più in vista, come in questo caso, cantiamo “Faccetta Nera”. In modo che se ci fossero persone comuni o altri fascisti in circolazione, non desteremmo preoccupazione, potremmo passare per normali cacciatori o per dei raccoglitori di funghi che passano lì per caso e che sono, loro malgrado, capitati in mezzo ad una sparatoria. In questo modo i fasci non ci sparerebbero… non subito. E cadrebbero nella nostra trappola. E noi, tra di noi, invece sapremmo la verità!»
Le armi si abbassarono e Giuseppe scese dall’albero.
Un minuto dopo comparve dalla boscaglia il partigiano esperto che esordì:
«Oh diavolo! Non vi trovavo più! Porca miseria, non ne potevo più di cantare quella porcheria!»
Tutti risero.
Anche la madre dei giovani, anche se era, com’è logico, la più scossa di tutti.