Numero 39/2017
27 Settembre 2017
Beergate, ovvero catena del freddo e conoscenza dei birrai
Già aveva fatto parlare di sé per la settimana di San Patrizio organizzata con il birrificio irlandese The White Hag, per aver fatto conoscere una realtà particolare qual è una sidreria come la scozzese Thistly Cross Cider, e per aver portato all’Hop Summer Fest di Livorno il birrificio britannico Great Newsome; ed ora Beergate ritorna in forze per la nuova tappa della sua iniziativa “Mastri birrai on the Road”, con cui porterà per la prima volta nel nostro Paese il birrificio irlandese Kinnegar. Ma che cosa fa e come è nata Beergate? Quali sono le sue particolarità? Ce lo racconta Marco Di Lella, titolare e fondatore insieme al fratello Luca.
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Marco, che cos’è e come è nata Beergate?
Tutto è nato da quando, dopo dodici anni di esperienza come beershop, tra il 2010 e il 2012 abbiamo iniziato a prendere contatti direttamente con i birrai esteri invece di appoggiarci a degli intermediari. Ci siamo subito resi conto di come il trasporto – che non sempre avviene in condizioni adeguate – e la macchinosità della filiera andassero ad influire negativamente sulla qualità delle birre: da lì è nata la decisione di aprire una nostra società per l’importazione e la distribuzione, appunto Beergate, avendo come obiettivo principale quello di garantire la catena del freddo durante tutto il trasporto – cosa che molti, purtroppo, non riescono a fare. Inoltre, pur avendo all’epoca circa 500 etichette in negozio, non avevamo mai avuto la visita di un produttore: il che ci sembrava decisamente frustrante, oltre che un handicap per un’adeguata promozione del prodotto nei locali a beneficio anche dei publican. Così, forti di questi contatti diretti, il nostro secondo obiettivo è stato quello di organizzare i tour dei birrai nei pub. Siamo partiti con il Belgio, per poi allargarci alla Francia, al Regno Unito e all’Irlanda. Dal 2014 abbiamo chiuso il beershop, e ci dedichiamo solo a Beergate.
Appunto l’Irlanda è ad oggi forse il vostro maggior Paese di riferimento: come siete arrivati a questa scelta?
Quando abbiamo iniziato il grosso del mercato era concentrato su Germania e Belgio, ma noi amavamo molto gli stili inglesi: così abbiamo iniziato a recarci di persona in Gran Bretagna, per avere birre che fossero “genuinamente inglesi” in quanto prodotte lì da birrai locali. Poi ci ha incuriositi l’Irlanda, perché all’epoca arrivavano in Italia pressoché esclusivamente grandi produttori: abbiamo così iniziato a fare una ricerca di quali fossero i piccoli, imbattendoci in realtà di alta qualità come The White Hag e Kinnegar. A mio avviso l’Irlanda offre un panorama più variegato della Gran Bretagna, in quanto diversi mastri birrai si sono formati negli Usa portando influenze americane nella produzione birraria locale.
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Qual è stata la più grande soddisfazione, e quale invece un rimpianto?
La più grande soddisfazione è stata quella di riuscire a cogliere il valore di certi birrifici poi divenuti celebrità quando erano appena partiti: penso a The White Hag o Great Newsome, in entrambi i casi conosciuti e fatti conoscere prima che vincessero i premi che li hanno resi noti a livello internazionale. Il maggior rimpianto, quello di non essere mai riusciti a lavorare con i cask inglesi, dati i problemi di conservazione che pongono: ma è uno dei nostri prossimi obiettivi, insieme a quello di importare birre ceche non filtrate né pastorizzate che pongono sfide analoghe.
Quali sono i progetti futuri?
Oltre a migliorare ancora la catena del freddo con gli intenti a cui ho appena accennato, vorremmo espandere la rosa dei birrifici con cui lavoriamo ed iniziare ad importare anche cibo tipico irlandese. Per ora è solo un progetto, ma ci stiamo organizzando.