Numero 01/2021
7 Gennaio 2021
Gli agrobrassonauti di Cascina Motta
Quando varchi il portone del British Museum of Natural History a Londra, South Kensington, ti coglie, immediata, la sensazione di entrare in un luogo dotato di una non comune sacralità. E non è solo l’imponenza del colossale edificio vittoriano che ospita il museo – fra l’altro di recente arricchito da una smisurata, modernissima sezione interamente dedicata all’evoluzione – ma è soprattutto la straordinaria qualità delle collezioni che il museo può vantare ad attirare migliaia di visitatori da tutto il mondo. Il profano, è del tutto comprensibile indugi sulle collezioni più appariscenti, come gli scheletri di impressionanti dinosauri, ad esempio, un degno rappresentante della cui stirpe fa solitamente bella mostra di sé già nell’atrio del museo, occupando con la sua mole sconcertante uno spazio immenso. Ma, superato l’inevitabile stupore, chi non sia del tutto digiuno di conoscenze nel campo della biologia, troverà altrettanto affascinanti altri reperti, forse meno appariscenti, ma sicuramente capaci di stimolare intriganti riflessioni. Salendo le scale che portano al ballatoio del primo piano ci si imbatte nella scultura che rappresenta un Charles Darwin a grandezza naturale, comodamente sprofondato in una poltrona e con le gambe accavallate. Ha un’aria pensierosa, ma anche assai consapevole e soddisfatta, potremmo supporre dei traguardi scientifici raggiunti, teoria dell’evoluzione in primis. Devo confessare che provo un certo disagio alla vista di quella statua celebrativa solitaria, priva della compagnia dell’altro riconosciuto co-scopritore del meccanismo dell’evoluzione, Alfred Russell Wallace. I due scienziati, sono arrivati a conclusioni del tutto simili partendo da dati ed esperienze completamente diverse. E allora perché celebrarne uno soltanto? Questa però, è davvero un’altra storia, forse persino una brutta storia di una grande scoperta scientifica in parte usurpata, un furto intellettuale i cui effetti perdurano fino ai nostri giorni, come dimostra, inequivocabilmente, l’assenza di un secondo monumento celebrativo. Ma, sia chiaro, non permetterò ad un piccolo incidente di rovinarmi la visita.
Svolto a destra, prendendo la seconda rampa di scale che porta al ballatoio. Arrivato in cima mi guardo indietro e getto lo sguardo su questo irripetibile paesaggio museale. Il dinosauro nell’atrio, frotte di visitatori che vanno in tutte le direzioni, un’enorme sezione di Sequiadendron giganteum sulla parete dell’ingresso, opposta alla mia posizione. Ma quello che sono venuto a vedere si trova a poca distanza da me, proprio su questo ballatoio. Il bello dei musei come questo londinese è che hanno la capacità, rinnovandosi continuamente, di contraddire radicalmente l’idea tradizionale di museo, luogo polveroso nel quale stantie collezioni ottocentesche vengono esposte per l’incomprensibile (ai più) piacere che ne traggono pochi addetti ai lavori. Questi musei sanno suscitare entusiasmo anche in un vasto pubblico generalista, assolvendo alla propria funzione socio-educativa, rinnovandosi costantemente, eppure mantenendo in essere un nocciolo duro di esposizioni che si avvalgono del contributo di reperti di straordinario valore scientifico. Beh, su questo ballatoio sono esposti numerosi reperti che testimoniano un processo evolutivo che ci riguarda molto da vicino. Qui è assai ben rappresentato gran parte del percorso che ha portato all’evoluzione della nostra specie, Homo sapiens. Tuttavia, in una delle più ricche collezioni al mondo di reperti appartenenti a membri estinti della famiglia degli Hominidae, il fossile che più di ogni altro ha sempre catturato la mia immaginazione è senza alcun dubbio Lucy, lo scheletro fossile di una giovane Australopithecus afarensis vissuta circa 3,2 milioni di anni fa. Al momento del clamoroso ritrovamento, nella località 288 di Afar (da cui l’epiteto specifico afarensis) ad Hadar, Etiopia, il 24 novembre 1974, questo reperto fu ritenuto essere, per le caratteristiche delle 52 ossa rinvenute, il tanto ricercato anello evolutivo mancante. Quasi ad alleggerire le incredibili emozioni del ritrovamento, di cui, fra l’altro, fu subito chiara la straordinaria importanza, Pamela Alderman, un membro della spedizione franco-americana, suggerì di denominare quel fossile femminile Lucy, in onore della canzone dei Beatles Lucy in the Sky with Diamonds che pare fu effettivamente più volte trasmessa alla radio la notte della scoperta. I paleoantropologi americani Donald Carl Johanson e Tom Gray, come pure i loro omologhi francesi Maurice Taieb ed Yves Coppens, senza alcun dubbio ebbero in quel ritrovamento il momento più esaltante e significativo delle rispettive carriere.
Ma perché era ed è, ancora oggi, così rilevante quella scoperta? La relativa completezza dello scheletro è sicuramente parte di tale rilevanza, ma è soprattutto l’andatura bipede di quella nostra progenitrice, fra l’altro confermata recentemente da altri reperti fossili appartenenti alla stessa specie. E sì. Perché c’è stato un tempo, alcuni milioni di anni fa, in cui le foreste pluviali che occupavano le vaste pianure dell’Africa orientale si sono trovate ad affrontare lunghi periodi di crescente siccità, associata all’apertura della depressione della Dancalia. Con il protrarsi di una grave carenza idrica la foresta, fatalmente, comincia a cedere il passo ad un diverso tipo di bioma, la savana. Il territorio forestale si trasforma gradualmente, ma inesorabilmente, in una savana dominata da alte Graminaceae e sparsi alberi isolati. Questo è lo scenario nel quale un gruppo di scimmie rinuncia gradualmente allo stile di vita della foresta, per adattarsi alle inedite condizioni della savana, habitat che non può garantire né le risorse alimentari, né la protezione offerte da una fitta foresta. Adattarsi al nuovo ambiente non dev’essere stata una passeggiata, ma fu proprio la pressione selettiva di quell’ambiente spoglio e progressivamente inaridito a determinare ciò che siamo oggi. La postura eretta offre un facilmente comprensibile vantaggio competitivo in una pianura dominata da erbe alte. Mi sembra quasi di vederla la piccola Lucy, fare capolino col suo metro e dieci scarso, tra le erbe della savana di Afar, e scrutare l’orizzonte alla ricerca di potenziali pericoli o di opportunità.
Era un’epoca in cui i nostri antenati erano probabilmente chiamati più frequentemente di quanto ci piace pensare, a giocare il ruolo delle prede, che non quello dei predatori. Ed è per questo che la pianura ha giocato un ruolo così essenziale nell’evoluzione umana. La postura eretta, stimolata da quelle pianure erbose, ha liberato gli arti superiori dall’incombenza della deambulazione e della brachiazione. La mano è così diventata progressivamente l’organo prensile straordinariamente raffinato e complesso che oggi ben conosciamo, trascinando con sé lo sviluppo di un grande ed efficiente cervello. Ogni volta che ho avuto l’opportunità di gettare lo sguardo su quei piccoli frammenti d’ossa ho invariabilmente rivissuto lo stupore della prima volta.
La pianura, l’erba alta, una testolina pelosa che fa capolino tra le spighe nel caldo asfissiante. Non è possibile non pensare a quella ed altre pianure, luoghi dove altre fondamentali tappe delle civiltà umana hanno potuto fiorire. Se poi vivi gran parte della tua vita in una regione dove praticamente l’intero territorio è collinare o montuoso non è così immediato comprendere le suggestioni offerte dalla pianura. Quando poi ti ritrovi improvvisamente, per le imprevedibili vicende della vita, nel bel mezzo della pianura italiana per antonomasia – quella Padana – è assai facile che quel paesaggio ti risulti all’inizio del tutto alieno ed a tratti perfino doloroso. La pianura estraniante. Tranquilli, è solo un effetto temporaneo. Ora lo so. Man mano che il cervello comincia a fare i conti con il nuovo orizzonte, ti ritrovi a guardare attorno con rinnovata attenzione e scopri gradualmente la capacità di riconoscere punti di riferimento elevati a breve, media e lunga distanza. Prima o poi capita finanche, magari nel corso di una giornata particolarmente tersa, che lo sguardo, senza incontrare ostacolo alcuno, possa spaziare indisturbato per chilometri e giungere fino alle Alpi innevate. Un’autentica vertigine. La gente di pianura, insomma, ha il raro privilegio, raro almeno nel nostro accidentato Bel Paese, di poter gettare lo sguardo lontano, ben oltre l’angustia del ristretto posto in cui vive. E questa peculiare condizione orografico-geografica ha certamente contribuito a forgiare il carattere della gente che in pianura ci vive da generazioni. Gente che sa guardare oltre, che sa immaginare un futuro diverso, che sa progettare nuove prospettive.
È probabilmente da tale concreta lungimiranza, affinata nei millenni, assieme ad ogni altro vantaggio discendente dalla conformazione pianeggiante del territorio – agricoltura più agevole, risorse idriche prontamente disponibili, fertilità dei suoli, comunicazione più immediata, infrastrutturazione più veloce e meno costosa – che discende la riconosciuta capacità di intraprendere dei nostri connazionali residenti nella Pianura Padana.
Oggi, si sarà capito, vi portiamo in pianura. Siamo in pianura con l’obiettivo di comprendere come sia riuscito, a Cascina Motta, di riuscire ad intercettare il trend positivo della birra artigianale Made in Italy rivoluzionando completamente la precedente tradizionale vocazione aziendale. L’azienda agricola Cascina Motta è ubicata in Piemonte, nel comune di Sale, in provincia di Alessandria al confine con quella di Pavia. Nel cuore della Pianura Padana, a pochi chilometri proprio dal quel fiume Po che tanto ha contribuito a disegnare questo paesaggio. È una delle aree più fertili dell’intero Paese, vocata all’agricoltura quanto all’allevamento, e perfino all’orticoltura. La storia di Cascina Motta affonda le radici in un’epoca assai lontana, quando la più autentica attitudine produttiva del territorio era considerata quella cerealicolo-zootecnica. E per lungo tempo gli animali, tanto quelli da lavoro, quanto quelli da produzione, sono stati un elemento imprescindibile di questa realtà aziendale. Ma le cose cambiano e le l’imprese agricole devono adeguarsi.
L’innovazione, nel caso di Cascina Motta, consiste soprattutto nella nascita del Birrificio Contadino®, che ha preso avvio nel 2008 quando il nuovo proprietario del fondo, Massimo Prandi, ha deciso che era tempo di unire la sua formazione da tecnologo alimentare e la lunga esperienza da enologo, con la capacità operativa di Marco Malaspina, la cui famiglia da generazioni coltiva i terreni del cascinale. Da questo primo sodalizio ha preso avvio la lunga sperimentazione che ha condotto alla riconversione dell’azienda alla coltivazione dell’orzo da birra e del luppolo, in regime di agricoltura biologica. Che senso ha, si saranno chiesti, investire risorse ed energie nella deludente produzione di commodities che il mercato si rifiuta di pagare un prezzo non solo non remunerativo, ma troppo spesso neanche capace di coprire i costi di produzione? Ed allora via libera alla trasformazione, ai processi capaci di conferire valore aggiunto alle materie prime. E non solo il brassaggio, ma anche la grande sfida della maltazione. Ma processi di ripensamento così profondi di un’azienda agricola non avvengono se non a prezzo di sforzi considerevoli, né senza mettere in campo una determinazione incrollabile che consenta di superare un periodo di sperimentazione denso di insidie e delle inevitabili delusioni. Dopo quasi dieci anni di lavoro dietro le quinte, affinate le tecniche agronomiche e la maltazione, è arrivata la tanto attesa sala cotta nel luglio 2017. Contestualmente, si è unito al team il mastro birraio, Alessandro Beltrame, formatosi sui banchi dell’ITS di Torino e dopo aver maturato un’ampia esperienza presso diversi birrifici del Piemonte.
Il progetto, potremmo semplificare, nasce dalla visione e dalla scommessa imprenditoriale di Massimo, ma si è realizzato assieme alle competenze apportate da Marco ed Alessandro, che hanno creduto nel progetto contribuendo a farlo diventare realtà. Tre personalità diverse, diventate un tutt’uno professionale nella sfida della birra 100% farm made.
Un’azienda interamente di proprietà, – terreni, fabbricati e impianti – è senz’altro garanzia di stabilità agronomico-colturale, e questo promuove l’investimento in progetti di lungo periodo, inclusa la coltivazione dei cereali, del luppolo e di tutte le altre colture che fanno parte di questo piccolo mondo, nel quale si intende porre particolare attenzione al mantenimento e reintegro della fertilità, alla lotta ad infestanti e parassiti compatibile con le prescrizioni previste dalla certificazione di agricoltura biologica e comunque indirizzata al massimo della circolarità e sostenibilità delle produzioni. Altrettanta energia è stata investita in impianti e fabbricati, indirizzando il recupero di quelli già esistenti nel rispetto degli elementi architettonici storici – parte integrante della cultura e della tradizione locale – e, contestualmente, limitando drasticamente il consumo di suolo.
Allora Massimo, cominciamo dall’inizio. Quali coltivazioni erbacee vengono praticate in azienda?
Considerato che la finalità produttiva dell’azienda è la birra contadina non c’è certo da stupirsi se una delle principali coltivazioni è l’orzo (Hordeum vulgare). Le cultivar Tazio, Bastille e Concerto occupano tutta la nostra produzione. Sono orzi distici che, a differenza dei polistici, a fronte di una minore resa, producono chicchi più grossi, ed in genere presentano contenuti di azoto e proteine inferiori e glume più piccole. Parametri ideali per la maltazione artigianale e la successiva trasformazione in Birra Contadina. La scelta di queste cultivar, che si sono dimostrate più adatte al nostro specifico contesto pedo-climatico, è caduta in seguito ad una sperimentazione pluriennale che ha visto coinvolte oltre 10 varietà in coltivazione triennale. Oggi siamo in grado di utilizzare esclusivamente sementi autoprodotte, la qual cosa ci ha interamente svincolato dai fornitori. A differenza di ciò che avviene per la maggior parte dei cerealicoltori, la nostra scelta è di non comprare più alcun fattore di produzione da terzi, eccetto per il primo impiego, in modo da poter garantire una filiera birraria al 100% aziendale, sotto il nostro diretto controllo e responsabilità. Oggi, infatti, per la coltivazione degli orzi distici ricorriamo solo alla tecnica della minima lavorazione (minimum tillage), interrando i residui vegetali delle colture miglioratrici e delle trebbie, rifuggendo l’aratura profonda e l’uso di qualsiasi fertilizzante che determinerebbe maggiore stress a carico del terreno.
La semina, nei mesi di ottobre o novembre, a seconda dell’andamento climatico, prevede esclusivamente l’uso di una selezione di semi dell’anno precedente. Nel corso dell’inverno le plantule entrano in stasi vegetativa fino alla primavera. Con il ritorno della stagione mite, l’orzo accestisce e cresce rapidamente, sviluppando l’infiorescenza che si trasforma entro maggio in spiga verde. Questa fase è molto delicata per la pianta, che necessita di opportune condizioni climatiche: pioggia regolare e non troppo abbondante, assenza di gelate primaverili tardive, buona insolazione. Dalla semina fino alla raccolta si interviene solo con un intervento di diserbo meccanico. La trebbiatura, che avviene generalmente nella terza settimana di giugno, è una fase molto critica: è necessario attendere la completa maturazione ed essicazione delle spighe, evitando l’esposizione ai temporali estivi. Inoltre, è necessario procedere tempestivamente alla pulizia dell’orzo, che viene realizzata direttamente in azienda grazie ad un impianto di vagliatura e calibrazione.
Tra le coltivazioni significative praticate in azienda, una di indubbio rilievo è quella del frumento tenero (Triticum aestivum). Una fase di sperimentazione biennale ha consentito di individuare una buona cultivar tipicamente impiegata nell’industria birraria e biscottiera, che garantisce limitati tenori proteici ed una granella di buon calibro. Poi, abbiamo intrapreso la scelta del recupero di alcune antiche varietà, dedicando ampio spazio di coltivazione al frumento San Pastore e una minore superficie al Verna, che trovano impiego nella produzione di farina. Dal 2019 abbiamo introdotto nella pratica aziendale anche la coltivazione del frumento duro (Triticum durum), ricorrendo alla celebre varietà Senatore Cappelli, vero orgoglio della tradizione contadina italiana, caduto nel dimenticatoio, ma riscoperto per le peculiarità organolettiche, nutrizionali e nutraceutiche.
Per quanto riguarda la segale (Secale cereale) abbiamo inteso riscoprire varietà di montagna, che si caratterizzano per la taglia elevatissima: le piante superano, infatti, i 2 metri di altezza. Si tratta di varietà rustiche, capaci di adattarsi anche ad andamenti stagionali avversi e di sopraffare le malerbe. Unico inconveniente la difficoltà di trebbiatura, perché le moderne mietitrebbiatrici non sono progettate per la raccolta di cereali dalla stazza così poderosa. Questa ultima fase, quindi, richiede un’attenzione particolare.
Dal 2018 è stato messo a coltura anche il mais, con l’intento di sperimentarlo nella produzione di Birra Contadina®. In particolare, si è puntato sul recupero dell’antica e nobile varietà Pignolét, a 8 file, impiegata nel passato come alimento base per la produzione di farina da polenta. Si tratta di una cultivar resistente e poco esigente, capace di adattarsi anche a climi di collina e con scarse dotazioni irrigue, ma soprattutto in grado di fronteggiare autonomamente i principali parassiti dei moderni mais ibridi, tra cui la stessa piralide. A differenza degli altri cereali, il mais è un cereale a semina primaverile, che conclude il proprio ciclo produttivo a settembre inoltrato. La peculiarità della gestione è l’intervento ripetuto per difendere la pianta dalle malerbe, mediante l’utilizzo di sarchiatrice meccanica. Inoltre, abbiamo attivato un piccolo orto finalizzato al recupero del mais 8 file Biancoperla e di una varietà di mais viola autoctona italiana.
Nonostante molti pensino che il coriandolo (Coriandrum sativum) sia una coltura “esotica”, si tratta di una specie che cresce molto bene nei nostri climi e si adatta alla semina autunnale, similmente ai cereali o ancora più alle piante delle Apiaceae, quali carota, finocchio, sedano e prezzemolo di cui è stretto parente. La raccolta delle ombrelle, deve avvenire al mattino presto quando il coriandolo è ancora umido di rugiada. Vanno quindi essiccate subito altrimenti col tempo perdono molte proprietà, essiccate e stoccate in cella frigorifero e sottovuoto. Abbiamo voluto l’inserimento di questa essenza tra le nostre colture minori per poter aromatizzare alcune delle nostre birre, in particolare la nostra birra contadina tipo blanche, la Masoira. L’aromaticità unica e potente della spezia caratterizza in modo inconfondibile le bevute, donando ancora più stupore di quanto straordinario potenziale abbia la natura per arricchire la birra!
In azienda, proprio nell’ottica di una gestione che favorisca sistemi naturali di recupero di fertilità vengono impiegate diverse colture da sovescio, quali favino (Vicia faba), soia (Glycine max), grano saraceno (Fagopyrum esculentum), inserite nella rotazione triennale.
In azienda non vengono praticate coltivazioni arboree, salvo qualche decina di gelsi secolari, che teniamo a salvaguardia di una certa agro-biodiversità, e qualche pianta da frutto di antiche varietà piemontesi la cui produzione è destinata essenzialmente all’autoconsumo.
La coltivazione aziendale del luppolo (Humulus lupulus) quanta superficie interessa e verso quali chemiotipi è prevalentemente orientata?
Sempre nell’ottica della massima autonomia produttiva possibile, a partire dal 2014 il Birrificio Contadino Cascina Motta si è dotato di un luppoleto, che nel 2016 ha assunto le dimensioni attuali di circa 6500 mq, con oltre 1200 piante suddivise in 7 varietà. Dal 2018, giunte le piante a maturità, la produzione di coni è in grado di soddisfare interamente le esigenze aziendali per la produzione di birra. La coltivazione avviene in regime di agricoltura biologica, garantendo così la massima naturalità e genuinità della nostra Birra Contadina.
Le cultivar ospitate nel luppoleto sono: Cascade, Taurus, Chinook, Magnum, Perle, Saaz, Hallertau Hersbrucker. In pratica, una selezione di alcune tra le più nobili cv di luppolo, sia da amaro che da aroma, che consentono al birrificio di realizzare le migliori combinazioni organolettiche.
Ma non ci siamo accontentati di produrre i più noti luppoli internazionali. Dal 2017 siamo alla ricerca di piante spontanee da domesticare; un processo impegnativo e difficile, che ci ha già consentito di selezionare alcune interessanti accessioni.
Quante, delle produzioni primarie aziendali, vengono reimpiegate nelle varie attività aziendali di trasformazione?
Sostanzialmente tutte le colture vengono reimpiegate in azienda. Il prodotto eccedente (in particolare orzo e frumento) al momento della successiva trebbiatura vengono vendute sul mercato, in modo da liberare lo spazio per lo stoccaggio del nuovo prodotto. Oltre alla produzione di birra, Cascina Motta sta avviando la produzione di una selezione di farine.
Quali sono le principali infrastrutture aziendali?
L’azienda ha come fulcro storico la villa padronale Seicentesca, per la quale è previsto un prossimo recupero, anche se manca ad oggi ancora una precisa destinazione d’uso (abitazione personale o locale ricettivo). Inoltre, vi è una casa colonica, nella quale da decenni vive la famiglia di Marco Malaspina, altro socio di Cascina Motta, che si occupa specificatamente della coltivazione. Disponiamo, inoltre, di un locale dedicato a ricovero per le trattrici e gli attrezzi agricoli, e di moderni silos dedicati allo stoccaggio dei cereali in atmosfera controllata per circa 400 quintali. Tra le mura della vecchia stalla, recentemente ristrutturata ed ampliata, invece trova spazio il birrificio, in cui sono comprese l’impianto di pulitura e selezione dei cereali, la malteria, il birrificio, l’impianto di confezionamento e la cella frigorifera.
Puoi descrivere in dettaglio la malteria, che certamente rappresenta un’infrastruttura ancora piuttosto desueta nei birrifici italiani, ivi inclusi quelli che si fregiano del titolo “agricolo” e che esternalizzano la maltazione?
La piccola malteria di cui siamo dotati, così come tutti gli altri impianti della nostra azienda, è di progettazione e fabbricazione italiana, Marca BBC Inox, da 6 quintali a ciclo. Un vero e proprio gioiello tecnologico, ricchissimo di controlli e dotato di un PLC molto potente che presiede ogni fase della trasformazione. La nostra malteria artigianale è costituita da un tamburo rotante forato, simile concettualmente al cestello di una lavatrice, all’interno del quale possono essere ospitati fino a 600 Kg di orzo. Il processo prevede delle fasi di lavaggio e macerazione in acqua, quindi, l’impianto in modo programmabile permette di effettuare dei cicli di carico, ricircolo e scarico dell’acqua. Segue, poi, una fase di essicazione e torrefazione, per ottenere differenti tipologie di malto. La macchina è dotata di un sistema di riscaldamento e ventilazione intensa, con misurazione e regolazione dell’umidità e del peso, in modo da permettere la gestione puntuale di ogni fase del processo. Pur essendo altamente informatizzata, la malteria artigianale richiede un controllo attento e costante, con aggiustamenti specifici della ricetta in funzione delle peculiarità del singolo lotto di orzo ed anche delle condizioni stagionali.
I risultati finora raggiunti nella maltazione dell’orzo per ottenere diverse tipologie di malto sono frutto di una sperimentazione di processo ed ottimizzazione della macchina portati avanti di pari passo con la messa in coltura dell’orzo distico. Ottenere un buon malto significa sommare la qualità dell’orzo a quella del processo di trasformazione, con una variabilità intrinseca di ogni annata, ogni campo, ogni ciclo di lavorazione. La peculiarità della birra contadina® risiede proprio nella sua variabilità: se così non fosse, evidentemente, mancherebbe la naturalità, l’artigianalità, la contrapposizione all’industrializzazione dei processi e delle tecniche. La ricerca della standardizzazione in campo birrario, perseguito anche da molti artigiani, è a tutti gli effetti retaggio della massiva produzione industriale che ha plasmato nel tempo la mente ed il palato dei consumatori.
A questo punto non posso fare a meno di chiederti di descrivere in dettaglio il birrificio.
L’impianto di brassatura è di Simatec, a vapore, con caldaia da 12 Hl, appositamente progettato per utilizzare malti artigianali (è critica soprattutto la fase di filtrazione). Abbiamo a disposizione complessivamente 10 tini, di cui 3 a cielo aperto, 2 maturatori isobarici e 5 troncoconici isobarici tutti da 12 hl utili. In questo modo, grazie alla imbottigliatrice isobarica della ditta Rizzolio possiamo fornire al consumatore una birra artigianale non rifermentata in bottiglia, quindi decisamente pulita e senza eccessivo corpo di fondo. Questa scelta, per noi, è strategica, in quanto ci consente di sviluppare circa l’80% del volume prodotto in bottiglia e limitare la vendita in fusto a circa il 20%. Grazie a questo siamo riusciti a conquistare una fetta importante della ristorazione di qualità ed attenta ai prodotti 100% Made in Italy ed a basso impatto ambientale.
Dalle materie prime al prodotto finito. Hai voglia di descrivere analiticamente la vostra produzione brassicola attuale?
Birra Contadina non è solo il nostro marchio di fabbrica, o un marchio di qualità genuina, ma una scelta di vita, una consapevolezza etica, una filosofia produttiva. Un’opportunità, da vivere al costo della consapevolezza di limitazioni. In primo luogo la Birra Contadina a filiera interamente aziendale non può prescindere dalla variabilità della produzione. Ogni campo di cereale, ogni annata agraria, ogni ciclo di maltazione e ciascuna cotta presentano delle peculiarità che portano ad una costante variabilità del prodotto. Variabilità non tipica di molte produzioni artigianali, che si avvantaggiano dell’uso di materie prime di origine industriale, come i malti, o luppoli provenienti da diversi parti del globo, quindi acquistabili sempre ad immagine e somiglianza di quanto richiesto in ricetta.
Produrre Birra Contadina significa avere la consapevolezza di non poter produrre tutte le birre che si vorrebbe, o che i consumatori desiderano: il frutto dei nostri campi è l’unica risorsa da cui partire, con uno spettro di potenzialità ampio, ma non enorme, che trova una vasta gamma di possibilità di trasformazioni, pur sempre con le limitazioni tecnologiche che un impianto artigianale impone. Una scelta che paga con la garanzia del controllo completo e costante su ogni passaggio della produzione, dal campo alla bottiglia, senza intermediari e senza passaggi intermedi. Una scelta che fa sì che il primo “operaio” delle nostre produzioni sia la natura.
I processi produttivi del Birrificio Contadino Cascina Motta sono tutti all’insegna dell’ecosostenibilità e della circolarità. Dalle sementi autoprodotte, alle nostre etichette in carta riciclata e con la sostituzione di parte della cellulosa con scarti di orzo, poniamo estrema attenzione all’ambiente in cui ci troviamo ed alla comunità di cui siamo parte.
E quali sono i vostri progetti brassicoli futuri?
Già nelle prossime settimane sarà disponibile la nostra blanche prodotta con il coriandolo coltivato in azienda e con il contributo del nostro mais di antica varietà ottofile Pignolet. Abbiamo poi in mente una Ale con la zucca Martleta, deco del Comune di Sale, e una versione di Tamagnun fermentata in botte e/o anfora… ma questi ultimi non sono progetti a breve termine. Stiamo inoltre investendo sulla selezione di lievito selvatico da orzo e luppolo, per evitare anche in questo caso il ricorso a genetiche commerciali (anche se di fatto ormai da più di due anni impieghiamo solo lievito di recupero da feccia).
E comunque non mancano altre idee che avranno bisogno di tempo per essere sviluppate. Tra quelle, invece, già concretizzate e che sono un vero e proprio vanto della nostra azienda vi è la realizzazione delle etichette in carta d’orzo. Un altro progetto che riteniamo molto importante e qualificante, unico delle nostre produzioni, è la produzione birra con materie prime di singola annata, ovviamente riportata in etichetta.
Quali difficoltà comporta doversi ritagliare uno spazio commerciale in una regione dove numerose sono le realtà brassicole concorrenti?
Dal punto di vista commerciale, il nostro birrificio guarda ad uno spazio nazionale ed internazionale, non solo locale. Puntiamo alla vendita tramite distributori specializzati, che ci consentono di avere una diffusione capillare nei territori di riferimento, soprattutto nell’ambito della ristorazione di qualità, del settore crocieristico, dei bar e dei locali di tendenza legati alla cucina gourmet e bio, degli agriturismi. Infatti, spingiamo molto sulle bottiglie e poco, per non dire pochissimo, sui fusti. In realtà, proprio per le caratteristiche di “semplicità” delle nostre birre (lontana dalle tendenze modaiole) il pub non è il nostro luogo di elezione. Di fatto, anche per la filosofia che sta dietro alla nostra birra contadina ci riteniamo fuori dalla concorrenza diretta e, nonostante le difficoltà momentanee, siamo in costante crescita.
Come avete affrontato le difficoltà commerciali imposte dal primo lockdown legato alla pandemia da Covid-19? Ed il secondo?
Il primo lockdown ha impattato rimandando un primo investimento di espansione della cantina e questo ci ha creato qualche problema sugli ordini dell’estate, che comunque siamo riusciti a rispettare, considerata la limitatezza dei consumi. Al momento, il secondo lockdown è diventato paradossalmente per noi un’occasione di crescita, in quanto abbiamo sfruttato il Bonus ristorazione, che ha fatto da volano per gli ordinativi dei nostri clienti. Anzi, forse proprio l’effetto della pandemia ha fatto nascere un interesse maggiore nei consumatori verso prodotti 100% italiani ed a filiera agricola anche nel settore birrario e stiamo crescendo in modo davvero inaspettato. Migliorando il servizio e-commerce, inoltre, anche la vendita diretta al consumatore finale è diventato un elemento importante del business. La novità delle farine, inoltre, ci ha aperto un nuovo mercato che nella stagione fredda si preannuncia davvero molto, molto promettente!
Un unico, coerente, solido progetto produttivo, e tre progetti di vita molto ben ragionati e ben piantati sulla terra che coltivano. Un progetto brassicolo con alla base senz’altro la ben nota ed atavica lungimiranza di pianura. Il perfetto birrificio agricolo e contadino? Direi che se non è esattamente così, ci si avvicina molto. Cascina Motta, credo proprio che oggi si ponga, assieme a poche altre realtà presenti nel Paese, come una sorta di prototipo rappresentativo di quello che potrebbero essere molte aziende agricole in crisi, se avessero l’avvedutezza di riconoscere che un certo modello di agricoltura è destinato ad incontrare crescenti difficoltà in futuro, e forse finanche a sparire. Sostenibilità, territorio, recupero genetico, tradizione ed innovazione sono le parole chiave di questo modello autarchico, non per scelta politica, bensì in risposta ad una stringente esigenza etica.
E se non posso nascondere la mia ammirazione per questi tre coraggiosi agrobrassonauti, tuttavia, non sarei il vecchio botanico brontolone che sono, se non mi sforzassi di cercare il fatidico pelo nell’uovo. Tentare di offrire un ulteriore punto di vista. Il destino, come si diceva poc’anzi, ha voluto che io nascessi in un territorio accidentato e marcatamente segnato dalla presenza pressoché ubiquitaria di colline e montagne. Se sono intimamente persuaso del fondamentale ruolo che la pianura ha giocato nell’evoluzione della nostra specie, è assai probabile che non meno rilevante debba essere stato, necessariamente, quello di un orizzonte irto di ostacoli. Se al primo sono naturalmente portato a riconoscere l’aver contribuito in termini di lungimiranza (quella che oggi chiameremmo vision), al secondo non potrei esimermi dal riconoscere un analogo contributo nell’affermazione della curiosità (che, a questo punto potrebbe diventare parte della mission). Il Piemonte, non è certo solo pianura e senz’altro non è solo agro-biodiversità. È anche molto altro. E in questo altro non posso non menzionare anche una sorprendente variabilità orografica ed una sterminata fitodiversità, quantificabile in oltre 3.200 specie vegetali spontanee autoctone. Mi piace pensare che il trio di Cascina Motta, Massimo Prandi in testa, risolti eventuali problemi di integrazione con la certificazione biologica, potranno in futuro certamente contribuire a valorizzare almeno una piccola parte dell’enorme patrimonio vegetale della loro regione e che quindi, tra le loro ottime birre, ne compaiano anche alcune brassate unendo “lungimiranza & curiosità” con il significativo contributo di qualcuna delle numerosissime piante spontanee del loro territorio.
In fondo lungimiranza e curiosità non sono affatto in contraddizione, tutt’altro. Assieme promettono di diventare un’arma davvero molto potente. Forse, perfino così potente da riuscire a scrivere una nuova pagina nella storia della birra artigianale italiana.
Maggiori informazioni: cascinamotta.it