Numero 09/2019
25 Febbraio 2019
Intervista a Guido Palazzo, personaggio del palcoscenico sabaudo della craft beer.
Le parole chiave di questa intervista sono passione per il lavoro, comunicazione, formazione, consapevolezza, arte, tanti progetti, futuro e ovviamente birra di qualità!
Nella Galo Art Gallery, nel cuore di San Salvario a Torino, dove l’artista Galo espone la sua mostra “Bad to the Bone”, ho incontrato Guido Palazzo. Che ha risposto alle nostre domande.
Chi è Guido Palazzo e perché il suo nome è collegato al mondo della craft beer?
Partiamo da come sono collegato alla craft beer: nel 2009 abbiamo creato un evento a Saluzzo che quest’anno fa 10 anni (anche se io non faccio più parte del team), che ha cercato di porre l’attenzione nella parte bassa del Piemonte sul movimento Craft. Non che prima non ci fossero state già le condizioni, anche perché i birrifici stessi sono portatori di informazioni del movimento: Baladin, Beba, La Piazza a Torino etc. ma non c’era al tempo un evento che in qualche modo desse la giusta vetrina a questo movimento che stava crescendo. E siccome il mio compito era quello di progettare gli eventi, essendo un appassionato di birra fin da piccolo, casualmente da un ritorno da un viaggio in Germania e per tutta una serie di motivi, sono arrivato a conoscere delle persone che mi hanno aiutato a realizzare un evento di questo tipo. Naturalmente non azzeccando al primo colpo l’evento ma ritarandolo di anno in anno poi la pianta è cresciuta ed è cresciuto anche l’evento. Il mio nome è collegato a questo evento in primis e alla promozione che faccio del prodotto artigianale in lungo e in largo. Questa è una cosa che ho sempre fatto perché ho sempre creduto che la birra fosse più che altro un prodotto culturale e di promozione del territorio e non solo una bevanda. Quindi il discorso è molto legato al fatto di occuparmi di birre artigianali a 360 gradi.
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Quali sono i suoi progetti attuali?
I miei progetti attuali sono proprio questi: valorizzare il territorio e creare nuove consapevolezze. Dare nuove possibilità a delle persone che magari vogliono avvicinarsi ma sono un po’ impaurite, un po’ confuse, un po’ sospettose. M’interessa avvicinarli per fargli capire che il prodotto di qualità va compreso e saputo gustare. Quindi da 3 anni da quando non mi occupo più di “C’è Fermento!” ho comunque mantenuto vivo l’interesse per la formazione e mi sono costruito questo progetto che si chiama “My personal beer corner”. In realtà non è il mio personalissimo angolo della birra ma è un po’ il personalissimo angolo della birra di tutti, nel senso che ognuno di noi ha un piccolo personal beer corner oppure se lo vuole costruire; e in qualche modo attraverso i servizi che io propongo cerca di costruirsi il suo percorso di conoscenza brassicola. Ci sono servizi che vengono rivolti al pubblico generalista, a più persone. Ci sono eventi che vengono proposti ad un pubblico più specializzato conoscitore della materia. Ci sono dei servizi indirizzati alle aziende. Io credo che c’è un grande bisogno di far veicolare l’informazione ed il mio progetto tende a far questo: far scoprire la birra artigianale a tutti. Infatti, oggi siamo in un contesto un po’ insolito se vogliamo, quella di una galleria d’arte di una mostra d’arte: per me è fondamentale perché va a intercettare pubblici nuovi, persone che solitamente si approcciano alla birra poco consapevole, come se fosse più una bibita. In realtà in questi contesti per me è un’occasione di allacciare un rapporto e fargli scoprire che c’è un mondo da scoprire e che se vorranno, possono approfondire.
Tra l’arte e i suoi progetti che collegamento c’è?
Ho sempre trovato interessante abbinare più elementi di cultura e quindi legarmi al discorso dell’arte: per me è sempre stato un trait d’union ricercato e importate, perché anche quando organizzavo “C’è Fermento!” e altre iniziative più piccole, quello che mi interessava era legare i mondi e quindi c’era sì la somministrazione, ma sicuramente il concerto, l’artista di qualità, l’esposizione, e la cosa curiosa è che nella prima edizione abbiamo avuto proprio un live painting di Galo, dunque c’era la degustazione ma anche il momento culturali più trasversali. Per me dove c’è qualità ci sono possibilità d’intersezione: è sempre interessante vedere mondi diversi ma che puntano alla qualità, ala ricercatezza, all’approfondimento, quindi andare oltre di non fermarsi mai.
Cosa manca o è ancora poco sviluppato oggi sul mercato italiano della birra artigianale?
Quello che mi viene da dire è che abbiamo tantissimi birrifici e la crescita è sempre pazza e interessante: pazza perché ogni giorno c’è un birrificio che apre, interessante perché a distanza di tanti anni si vede un livello alto della qualità anche per chi si mette sul mercato. C’è una maggior ricercatezza, mentre un po’ di anni fa c’era più divario. Invece oggi forse anche il maggior numero degli attori sul mercato comporta una competizione che porta ad un livello più alto. Cosa manca? Proprio il pubblico: ci sono tanti produttori ci sono diversi distributori ma manca ancora tutta una fetta del pubblico consapevole che acquisti la birra che poi è il protagonista principale. E proprio per questi che io mi sono indirizzato a questa fascia di mercato: attraverso formazione ed eventi, costruendo occasioni di divulgazione e di formazione perché poi la birra va venduta. Quindi bisogna parlare tanto di birra in modo molto semplice.
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Cosa vuol dire per lei “bere consapevole”?
Vuol dire comprendere cosa sto bevendo, perché lo sto facendo. Nel senso che sicuramente il modo di bere è cambiato negli anni ma come nel mondo del vino. Una volta si puntava molto sulla quantità o comunque non si faceva attenzione a determinate sfumature mentre oggi sono proprio le sfumature che determinano, se vogliamo, l’aspetto interessante del prodotto. Quindi per me “bere consapevole” vuol dire capire cosa ho nel bicchiere e rispettare il lavoro di chi sta in sala cottura (del birraio). Una cosa molto simpatica che viene detta spesso: dietro a ogni birra c’è il birraio! (direi l’anima di chi l’ha prodotta). Io ho trovato in tanti prodotti le persone che li producevano.
Rispettare anche chi c’è dietro ad un bancone e propone questo bicchiere pieno di birra, che poi è la stessa cosa che fa uno chef quando pensa ad un piatto: lo propone e cerca di farvi vivere un’esperienza o un momento di piacere a chi degusta il piatto.
Parlando di consapevolezza, in Italia dove è più sviluppato il concetto di craft beer?
Adesso più o meno in tutto lo stivale c’è consapevolezza, non tutta allo stesso modo, ma comunque è una cosa abbastanza diffusa. Infatti, anche la crescita dei birrifici in zone un po’ più periferiche, dà la percezione del fatto che ci sia questa crescita. Noi nel Piemonte siamo stati tra i primi e tuttora siamo ben posizionati come qualità e come capacità di consumi. Un altro posto è il Lazio, tutto quello che c’è intorno a Roma. Lombardia, Veneto, Toscana. Una bella scena, molto interessante c’è nel bolognese: uno dei primi posti che ha avuto dei pub indipendenti, che quindi non compravano dai distributori ma direttamente dai produttori. Insomma, diciamo che il movimento sta crescendo.
Quanto è importante la qualità nel mondo della birra artigianale?
Tantissimo. Io sono molto contento che nel corso degli anni sia aumentata la qualità; è vero che ci sono anche tanti che cavalcano l’onda… Ma in questo momento di qualità si sta parlando e anche se non tutti riescono ad essere qualitativamente validi o al top però hanno tutti questa tendenza a voler ricercare il prodotto di qualità. Qualità che vuol dire anche attenzione alle materie prime quindi la produzione dell’orzo, dei cereali, del luppolo, l’utilizzo dell’acqua in un certo modo quindi non solo più il birraio come acquirente ma anche birraio come produttore quindi qualità che arriva dalla terra e arriva alla birra. È una cosa che affronteremo nel mese di fine marzo a Bra al Festival “Hopiness”, sul mondo della birra artigianale che parte dalla terra e arriva al bicchiere. Un Festival di 3 giorni che si occupa proprio di sviluppare questi temi: il cereale, il luppolo, l’acqua, le materie prime e come vengono in qualche modo declinate nei prodotti.
Come vede il mercato della craft beer in Italia, ci muoviamo nel senso giusto?
Posso darle un’impressione perché io non sono un attore del mercato diretto. La mia impressione è che si beve ancora “poco” e quindi bisognerebbe potenziare di più questo aspetto e creare più occasioni d’incontro tra il mondo della produzione e il mondo del consumo. Anche dal punto di vista della vendita se pensiamo a quella che è la proposta che fanno i locali, nella grande distribuzione è sempre una proposta superficiale, poco attenta, poco curata: forse su questo dobbiamo crescere di più. Ma crescerà sicuramente se crescerà anche l’esigenza del consumatore di avere un prodotto diverso e di conoscere questo prodotto. È un discorso a doppio binario: cresce la consapevolezza e di conseguenza il mercato si adatta anche a questa consapevolezza (deve dare delle risposte attente). Sicuramente vendiamo tanto all’estero ed è un aspetto molto positivo perché negli anni, pur non avendo una condizione storica, siamo riusciti a comunque farci conoscere sul mercato internazionale proprio perché siamo molto creativi e quindi abbiamo reinterpretato gli stili, abbiamo rivisto tipologie di birre che forse andavano riconsiderate e questa nostra originalità che è tratto distintivo degli italiani si è riverberata nel mondo della produzione delle birre ed è stata apprezzata all’estero. Naturalmente è uno degli aspetti.
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Quanto è importante la comunicazione e che tipo di comunicazione bisogna fare?
Molto importante. Va fatta nel modo giusto, senza spaventare ma cercando di intercettare il pubblico che in questo momento è ancora molto “nascosto”.
Quali sono stati i momenti positivi della sua attività e quelli negativi?
I momenti positivi sono sempre quelli legati al fatto di incontrare persone in questo settore che comunque ti arricchiscono, perché ognuno è veramente fatto a modo proprio e scopri della gente che fa delle cose stranissime e sono personaggi prima ancora che essere birrai. Quindi gli elementi positivi sono assolutamente quelli più legati alla comunicazione con le persone. I momenti negativi: nello specifico è di dover sempre ripartire un po’ da capo perché non si trovano ancora le condizioni giuste per poter fare il vero salto e quindi bisogna sempre mettersi in gioco e spesso diventa faticoso. A distanza di 10 anni ripartire di nuovo da capo con un nuovo progetto con l’energia che anche viene un po’ a mancare diventa un po’ faticoso però non li chiamerei momenti negativi, ma difficoltà che vengono puoi superate. Un altro aspetto negativo è lo scarso interesse che c’è nella conoscenza di questo settore, il fatto di non voler approfondire mentre su altri settori c’è più interesse. Sicuramente è anche un fattore culturale …non avendo una tradizione nel mondo della birra ma più in quello del vino tendiamo a snobbare il settore.
Quanto è importante in questo lavoro la rete, le relazioni con gli altri?
È fondamentale, non si lavora se non si costruisce una rete di relazioni. In primis perché può succedere di aver necessità di appoggiarsi a questa rete o di essere utile a questa rete e poi perché da soli non si fa nulla.
Cosa pensa del nostro Giornale, ha dei consigli da darci?
Il consiglio che do a tutti è quello di cercare di essere più semplici possibili perché i linguaggi tecnici spaventano e allontanano o sono capiti solo quando uno ha fatto un certo tipo di percorso: consiglio a chi fa il divulgatore di questo settore, di farlo nel modo più easy possibile. E dunque c’è da costruire un’audience in questo settore.
Per maggior informazioni su My personal beer corner: www.mypersonalbeercorner.it