Numero 09/2023
2 Marzo 2023
La birraia dei due mondi
La storia della birra è stata lungamente dominata dalle figure femminili. O almeno lo è stata, finché il gruit ha dominato sul luppolo. Le donne, non di rado vedove con prole, spesso escluse da altre opportunità lavorative, sbarcavano il lunario brassando birre aromatizzate con un accorto mix di erbe locali, talvolta espressione della flora spontanea del territorio di produzione. Erano le cosiddette alewives o brewsters, almeno in Gran Bretagna. Entrambi i termini, sfortunatamente, sono caduti gradualmente in disuso, man mano che il monopolio del brassaggio abbandonava l’universo femminile per trasferirsi in quello maschile. Queste intraprendenti birraie brassavano diversi giorni alla settimana piccoli batch, in modo da poter servire ai propri clienti un prodotto sempre fresco e gradevole. Tuttavia, il ricorso al gruit per conferire alle ales le molteplici proprietà (amaro, aroma, conservabilità) tanto apprezzate nella birra che più tardi sarebbero state apportate da un’unica specie vegetale, presentava un limite molto importante. Il tallone di Achille del gruit è difatti la scarsa conservabilità – quella che oggi chiamiamo shelf-life – dei prodotti brassati col suo contributo, di gran lunga inferiore a quella garantita dall’aggiunta di luppolo. Questa specifica proprietà del luppolo era destinata a rivoluzionare il mondo della birra. Fin quando si è diffusamente fatto uso del poco affidabile gruit, le ales non manifestavano grande resistenza alle infezioni batteriche o fungine, pertanto dovevano essere consumate in fretta, prima che le alterazioni le rendessero imbevibili. L’esigenza del rapido consumo, si prestava magnificamente a favorire le piccole produzioni domestiche, quindi a promuovere l’attività artigianale delle alewives. Il luppolo, allungando sensibilmente la shelf-life della birra, ne faceva un prodotto che si prestava alla produzione su vasta scala. Insomma, il luppolo stava aprendo la strada alla costruzione di grandi impianti, realizzati grazie a cospicui investimenti, al grande capitale perlopiù controllato, neanche a dirlo, dagli uomini. Così, il controllo della produzione brassicola è passato gradualmente in mani maschili. Il paradosso sta nel fatto che fu proprio una donna, una santa, una personalità eccezionalmente eclettica, Hildegard von Bingen (1098-1179), a determinare il successo brassicolo del luppolo. Scrittrice, botanica, musicista, monaca benedettina dell’Abbazia di St. Rupert in Germania, i cui studi sulle proprietà stabilizzanti e conservanti del luppolo spianarono la strada alla sua introduzione nella tecnologia brassicola. Il sodalizio birra-luppolo iniziò così a diffondersi a partire dal XII secolo. In Gran Bretagna, dove più strenua e lunga è stata la resistenza all’inesorabile offensiva brassicola del luppolo, la diffusione del consumo di birra luppolata fu così lenta che solo dopo il 1600 le ale inglesi iniziarono ad essere brassate col luppolo.
Intanto le donne della birra venivano lentamente espulse dal sistema produttivo brassicolo e non avrebbero mai più riconquistato posizioni dominanti. Da allora, il mondo brassicolo viene declinato prevalentemente al maschile, rinunciando di fatto al contributo di sensibilità e grazia che l’altra metà del cielo sicuramene avrebbe potuto apportare. E sebbene da allora gli spazi conquistati dalle donne in molteplici settori nel mondo produttivo siano certamente aumentati, queste, ancora oggi, sono decisamente sottorappresentate nel mondo della birra.
Dev’essere certamente per valorizzare le specificità di genere che esiste in Italia l’Associazione Donne della Birra. E per le medesime ragioni ogni uomo coinvolto a qualunque titolo nel mondo della birra dovrebbe esultare che una giovane donna stia muovendo i primi passi in questo universo tutto maschile. E per le stesse ragioni Alessia Devoli, oggi è la mia eroina. In lei due mondi convivono armoniosamente, senza apparenti contraddizioni. Non si tratta di due mondi transoceanici, come nel caso del noto eroe dell’Unità nazionale, ma transitalici. La nostra eroina è infatti, per metà piemontese e per metà calabrese. Non mi soffermerò a spiegare quanto profonde, ancora oggi, siano le differenze tra queste due regioni italiane, né quanto siano forti i legami che uniscono le due regioni. Mettere insieme queste due anime, evidentemente, anche per Alessia non dev’essere stato facile, ma alla fine sembra aver trovato il suo equilibrio ricomponendo l’iniziale dicotomia.
Alessia, raccontami un po’ la tua Calabria brassicola.
Prima di rispondere a questa domanda devo fare una premessa. Ho legami con la Calabria dalla nascita, ma fino allo scorso anno frequentavo le regione solo per pochi mesi all’anno. Vivo e lavoro stabilmente in Calabria soltanto da gennaio 2022, quindi mi scuso in anticipo se dovessi dimenticare qualcuno o se il mio punto di vista dovesse risultare alquanto superficiale. Per parlare di birra e Calabria, devo necessariamente partire dalla mia storia personale e dal forte desiderio di trasferimento a Sud, diventato sempre più forte dopo la morte di mia nonna. Sono nata e cresciuta nelle Valli Valdesi del Piemonte, da mamma piemontese e papà calabrese. Devo ammettere che in passato non ho sempre abbracciato la mia parte calabrese, al contrario ci sono stati anni di totale rifiuto. Ma avere questa sorta di doppia vita, mi ha senz’altro arricchito, aiutandomi a comprendere le tradizioni e il modo di fare delle persone. Così, senza quasi accorgermene, ho iniziato ad avvicinarmi alla Calabria e a creare un legame così forte che vivevo ogni rientro al Nord come un piccolo lutto. Dopo aver conseguito il diploma di agrotecnico e quello da mastra birraia ho sempre cercato un valido motivo che mi avrebbe consentito di vivere e lavorare in Calabria.
La mia scoperta della Calabria birraria inizia nel 2017. Il primo brewpub visitato fu Gli Sbronzi, dove conobbi il birraio, Demetrio Crea, ora anche birraio di Funky Drop, che mi introdusse alla scena birraria calabrese. Successivamente, in occasione di alcune fiere di settore, ho avuto modo di conoscere i birrifici ‘A Magara e Gladium. Solo un anno fa ho avuto modo di assaggiare le creazioni di Limen, J4 e Lametus, quindi possiamo dire che sono ancora alla scoperta dei sapori brassicoli della regione.
Ho avuto modo di notare che negli ultimi anni sono nati nuovi progetti birrari (birrifici, beerfirm, brewpub) e la qualità dei prodotti si è alzata, probabilmente per effetto della maggiore competizione. In contemporanea sono nate associazioni di homebrewers e appassionati come Beerstream e la recentissima Le Donne della Birra, associazione nazionale che ha, da poco anche qui nella nostra regione, una succursale coordinata proprio da me. Da quando mi sono trasferita qui, sono venuta a contatto, grazie anche al mio progetto personale amicabirraia, con moltissimi homebrewers calabresi. È grazie a questi numerosi contatti che posso senz’altro dire che la Calabria brulica di attività birraria.
Conosci qualche storia del territorio legata alla birra (o anche solo alle fermentazioni)?
I territori dove ho vissuto, Piemonte e Calabria, sono luoghi particolarmente vocati alla produzione di vino. Fin da piccola, che fossi in Piemonte o in Calabria è stato il vino a farmi avvicinare per la prima volta al mondo delle fermentazioni, anche solo con i profumi del mosto. In Piemonte vivevo in un borgo, dove le case sono molto vicine le une alle altre, e dove ancora oggi ci sono diversi spazi in comune (cortili, pozzo e forno per il pane). I miei nonni avevano la vigna ma fu sradicata prima che nascessi, quindi non ho vissuto in famiglia l’esperienza della vendemmia, ma con i vicini di casa. Ogni autunno il profumo del mosto riempiva i vicoli del borgo. In Calabria, invece, la vigna la ricordo molto bene, con sesti d’impianto completamente diversi da quelli in uso in Piemonte. Gli aromi di uva e vino erano più intensi. È la dualità vissuta anche nelle piccole cose quotidiane. Purtroppo non ho mai preso parte alla vendemmia in Calabria perché coincideva con l’inizio della scuola. Purtroppo, quella vigna attualmente non c’è più, a causa di un incendio. Il mio avvicinamento al mondo della fermentazione deriva anche dalla vita di campagna che ho sempre vissuto fin da bambina. Il vero input che ha determinato il mio destino è stata una serie di lezioni sulla fermentazione del vino, alle quali assistetti mentre frequentavo la quinta superiore. In un primo momento mi appassionai così tanto che decisi d’impulso di iscrivermi all’Università di Torino, al corso di laurea in Viticoltura ed Enologia, per realizzare molto presto che lo studio accademico, in quel momento della mia vita, non mi si adattava granché. Ma la svolta della mia vita era dietro l’angolo, ed assunse le sembianze di un volantino che promuoveva il corso ITS Agroalimentare per il Piemonte per diventare Tecnico della Produzione Brassicola a Torino. Effettivamente, di birra non ne sapevo nulla, per cui decisi di provarci.
Raccontaci le caratteristiche salienti della tua azienda?
La nostra azienda, nata solo nel 2022, si chiama 3VCRAFTBEER, e, allo stato attuale è una beerfirm. Brassiamo le nostre birre presso il birrificio Lametus, a Nicastro (CZ). In realtà, non sono socia fondatrice del progetto, ma sono stata inclusa quando l’idea era già consolidata. Uno dei motivi principali per cui abbiamo scelto la formula beerfirm sono i costi elevati di investimento iniziale per realizzare un birrificio con impianto.
3VCRAFTBEER? Che vuol dire?
Volevamo dare il giusto riconoscimento alla città che ci ha uniti nel nome della birra: Catanzaro. Catanzaro, è la città delle 3V: velluto, vento e Vitaliano.
Soci? Soci-collaboratori?
Siamo in 6, tutte persone con un’età attorno a 30 anni, con un altro lavoro, ma che dedicano del tempo alla beerfirm in base alle proprie competenze (creazione ricetta, contatti con grafico, vendita, marketing, etc.). I mei compagni d’avventura sono Luigi Trapasso (homebrewer, beer taster, diploma I livello AIS e secondo livello Unionbirrai; per 3v si occupa dei contatti con il birrificio, delle cotte di prova, delle vendite su Catanzaro Lido e della contabilità), Mario Falvo (homebrewer, cura i contatti con il birrificio, delle cotte di prova, delle vendite su Catanzaro e del merchandising), Antonio Mancuso (homebrewer, si occupa delle vendite nell’area della Presila Catanzarese), Giovanni Bonacci (homebrewer, si occupa delle vendite in Sila e Presila con Antonio, e dei contatti con il grafico), Andrea Agosto (homebrewer, cura le vendite nella zona di Catanzaro Lido e Soverato).
Alessia Devoli, nata il 4 dicembre 1994 a Pinerolo (TO), dopo i tuoi studi hai fatto qualche esperienza di homebrewing prima di avventurarti nella fondazione della tua beer firm?
Ho iniziato a fare homebrewing parallelamente all’inizio del corso ITS, in modo da fare esperienza pratica ed applicare ciò che studiavo in teoria. Ho iniziato nel 2015, brassando direttamente in all-grain con un pentolone e una sacca filtrante, un metodo del tutto simile al BIAB.
Hai fatto altre esperienze professionali, nel mondo brassicolo o in altri settori?
Nel settore brassicolo ho lavorato in produzione in Piemonte e in Calabria per un totale di un anno. Ho lavorato invece alle spine al Baladin dell’Aeroporto Caselle a Torino. Dopo questa esperienza ho capito che nel settore birra preferisco di gran lunga occuparmi di produzione. Parallelamente ho preso l’abilitazione alla professione di agrotecnico e questo mi ha dato accesso ad uno studio professionale come collaboratrice nel settore fiscale. Durante la pandemia, gestire il lavoro come libero professionista non è stato semplice, per cui ho creato un servizio che collegasse la mia professionalità con la mia voglia di fare birra, ed è così che nasce Amicabirraia. L’ispirazione me l’hanno data alcuni amici che, trovandosi chiusi in casa, mi chiedevano spesso consiglio sulla produzione di birra casalinga. Amicabirraia è uno spazio personale attivo sui social dove condivido consigli sulla produzione di birra artigianale e dove offro un servizio di consulenza ad homebrewers e microbirrifici. Ho voluto creare questo spazio online proprio perché mi sono resa conto che le domande degli homebrewers sono molto specifiche, e spesso non trovano risposta sui libri ed i corsi che abbiamo a disposizione. Attualmente, oltre che per Amicabirraia e per 3VCRAFTBERR, lavoro come collaboratrice tecnica per l’azienda SenzaSpine, di Motta San Giovanni (RC), che trasforma fico d’india e bergamotto in succhi biologici.
Vuoi descrivere la vostra attuale produzione brassicola?
Al momento devo limitarmi a descrivere la nostra prima birra, sebbene altre due siano in cantiere. A giugno siamo usciti a giugno con Mayahuel, un’American Pale Ale dal colore ambrato/arancio, limpida, bel cappello di schiuma a grana fine, persistente di color beige. Al naso intensa, emergono subito note fruttate, tropicali, resinose e floreali seguiti da sentori maltati. In bocca corpo medio/esile, sentori agrumati di pompelmo, limone, frutta con il nocciolo e frutta tropicale continuano il loro percorso, sorretti sempre da una buona base maltata, finale secco fruttato e persistente, amaro moderato. Per quanto concerne la scelta del nome il nostro illustratore, Giuseppe Talarico, ha inteso associare la nostra birra a Mayahuel, la dea atzeca dell’alcol ed amante di Ehecatl, Dio del Vento, una delle 3V della città di Catanzaro.
Come sai io mi occupo di piante applicate nella produzione della birra. Quindi sono particolarmente curioso delle birre in cui si usano ingredienti vegetali inconsueti. Ne hai già progettata/realizzata qualcuna? Conti di farlo in futuro?
Anche io sono molto affascinata dall’uso di ingredienti vegetali nelle birre, e credo che questa cosa dipenda dai miei studi da agrotecnico, ma anche dal fatto che nel corso della mia prima esperienza in birrificio, la maggior parte delle birre veniva prodotta con l’aggiunta di erbe e spezie del luogo. Non è un caso che la mia tesi finale all’ITS di Tecnico Birraio fosse intitolata “Erbe e Spezie: un connubio storico”. Proprio in occasione della tesi finale decisi, insieme al mastro birraio del birrificio dove avevo svolto il tirocinio e ad un erborista, di reinterpretare una ricetta del birrificio che portava il nome di un monte lì vicino (Gran Truc) sul quale crescono larici e abeti bianchi. Così decisi di impiegare gli apici vegetativi di larice, capaci di conferire alla birra, una American Brown Ale, un retrogusto balsamico sul finale.
Altri ingredienti vegetali che ho utilizzato, tanto in birrificio che nelle produzioni casalinghe sono: fiori di sambuco, Artemisia genepi, timo serpillo, zucca, bergamotto, fico d’india, Tanacetum vulgare, radice di Polypodium vulgare.
Quando decidi di aggiungere un ingrediente nuovo e particolare, come ti muovi? Che percorso logico decidi di seguire?
Faccio delle prove. Se non conosco affatto l’ingrediente faccio degli infusi per capire quanto estrae e qual è la forza aromatica. Poi faccio diverse prove, divido il mosto in due fermentatori per cotta e inserisco in ognuno diverse percentuali in modo da trovare quella giusta.
Come scegli la birra base da brassare che intendi poi integrare con il nuovo ingrediente, specialmente se questo risulta praticamente inedito nel mondo brassicolo?
Anche in questo caso se non lo conosco per niente faccio l’infuso per capire verso che aroma verte. Una volta conosciuto l’aroma penso allo stile che meglio si combina o che meglio esalta i sapori del nuovo ingrediente.
Ed in questa nuova birra al fico d’india che birra base hai brassato?
Saison.
Dove ti sei approvvigionata della materia prima addizionale per questa nuova birra?
Nel giardino di casa.
Quali parti della pianta hai utilizzato?
I frutti.
La parte impiegata era fresca o secca?
Fresca, che però, prima di inserire l’ingrediente nella birra lo ho congelato.
In quale o quali fasi del processo di brassaggio hai inserito l’ingrediente aggiuntivo, ed in quali condizioni produttive (temperatura, tempo, pH, etc.)?
Dopo una settimana di fermentazione a 25°C, poi ho fatto maturare la birra per 3 settimane a 8°C
Che quantità in peso (g) hai utilizzato di materia prima “particolare” per litro di birra prodotta?
70 g/l.
Come descriveresti i principali parametri dell’analisi sensoriale della tua birra con ingredienti particolari?
Stile: Saison al fico d’india
ABV: 6%
Esame visivo (schiuma, colore, limpidezza, etc.): birra dal colore aranciato che vira dall’arancio buccia d’arancia al melograno scarico. Il colore in questo caso viene conferito dai fichi d’india utilizzati, che sono di varietà a polpa giallo/arancio e polpa rossa. Leggera torbidità e schiuma bianca.
Esame olfattivo (intensità, persistenza, finezza, descrittori olfattivi, etc.): spiccano i sentori fruttati del fico d’india (miele, pera, banana, polpa di cachi) che si uniscono a quelli leggermente speziati del lievito utilizzato.
Esame gustativo (intensità, persistenza, gusto, sensazioni boccali, frizzantezza, corpo): spiccano anche qui i sentori fruttati uniti all’amaro lieve ed erbaceo dei luppoli e sentori lievi di cereale. Nel retrogusto cereale, mollica di pane. Frizzantezza medio/alta.
Viste queste prime esperienze nell’uso di piante inconsuete nel brassaggio, ritieni che in futuro potresti ancora lasciarti ispirare per realizzare ulteriori progetti di questo tipo?
Assolutamente sì, essendomi formata in un birrificio che utilizzava moltissime piante locali per me è importante continuare ad utilizzarle per creare sapori e profumi nuovi.
Come ben sai in alcuni paesi del Nord Europa, prima dell’avvento del luppolo, la produzione brassicola era fondata su un mix di erbe noto come gruit. Hai mai pensato di brassare una birra con il contributo di un gruit tutto made in Italy, e che fosse espressione fedele della flora spontanea del tuo territorio?
Sì, ci ho pensato spesso, ma non ho mai messo in pratica questo pensiero, anche se mi piacerebbe, soprattutto ora che sono in Calabria. Ancora conosco poco la flora di questa regione ma, prima o poi…
È alquanto semplice scrivere di birrifici già affermati e di birrai famosi. È, diciamo così, un’attività a basso rischio. Quando invece si decide di scrivere di un progetto giovane, bisogna essere consapevoli del rischio implicito in tale scelta. È una scommessa, un azzardo, un rischio come si diceva, che però vale la pena di correre. Se poi c’è di mezzo una ragazza competente, consapevole, volitiva, concreta, allora vale ancora di più.
Come amava ripetere il compianto Carlo Lorenzoni, professore di Genetica presso la Facoltà di Scienze Agrarie dell’Università Cattolica di Piacenza, esiste un fenomeno detto eterosi (o lussureggiamento degli ibridi) che consente agli ibridi di mettere insieme le migliori qualità delle linee parentali. Mi piace pensare alla nostra eroina calabro-piemontese come ad un felice incrocio di geografie e culture assai distanti, prima che di sentimenti e patrimoni genetici, capace di mettere in campo qualcosa di nuovo ed originale che promette grandi cose.
Ho conosciuto Alessia Devoli ed ho letto nei suoi occhi il futuro della birra artigianale in Calabria. Solo il tempo ci dirà se ho visto giusto, o se, in quell’occasione, ho solo alzato un tantino il gomito.
Foto di apertura:
Da sinistra: Nicola Ferrentino (Limen Brewery), Giuseppe Caruso, Demetrio Crea (Gli Sbronzi, Funky Drop), Alessia Devoli (3VCRAFTBEER), Damiano Coluccio (J4 Brewery), Antonio Baselice (La Gilda dei Nani Birrai).