Numero 23/2017
9 Giugno 2017
Quattro chiacchiere con Nicola Coppe, giovane talentuoso delle fermentazioni atipiche
Wild beer, sourale, fruitbeer: quali che siano le loro declinazioni – dalla fermentazione spontanea alla maturazione in botti di legno – le produzioni “acide” sono sempre più fonte d’interesse per gli appassionati del settore birrario. Innegabile, per questa diffusione, il contributo culturale apportato da Lorenzo Dabove (noto ai più come “Kuaska”) che, grazie ai suoi viaggi organizzati in Belgio- patria di questi stili- e le degustazioni guidate di lambic, kriek e framboise in tutta Italia, ha stimolato la curiosità di un pubblico via via crescente;di grande importanza, però, anche alcuni eventi di rilievo nazionale, nati negli ultimi anni e a tema specificamente “acido”, quali “La Notte della Mummia” a Montegioco, l’”ArrogantSour Festival” di Reggio Emilia ol’“Acido Acida” di Ferrara. Non bisogna, tuttavia, pensare che il panorama sour italiano si stia sviluppando sulla base di soli prodotti d’importazione: tutt’altro! Le birre acide sono ormai presenti nei listini di numerosi birrifici italici – grazie anche alla grande quantità di ingredienti adeguati che il nostro territorio offre – e Giovanni Campari, Leonardo Di Vincenzo, Riccardo Franzosi, Valter Loverier sono solo alcuni dei pionieri – in mero ordine alfabetico – che si sono cimentati nella sperimentazione di questi prodotti. Oggi, siamo venuti a fare 2 chiacchiere con un giovane talentuoso che di batteri e fermentazioni “atipiche” ha fatto il suo mantra: Nicola Coppe.
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Nicola, qual è stata la molla che ti ha spinto a dedicarti a lieviti e batteri non convenzionali?
Sin da bambino sono stato profondamente attratto dall’alchimia, passione che ho potuto coltivare col susseguirsi dei Natali, in cui ricevevo regolarmente kit da piccolo chimico con i quali mi dilettavo;nel giro di poco tempo, però, questo interesse si è spostato con maggiore attenzione verso la microbiologia, perché in essa, negli allevamenti di microrganismi e di batteri, c’è vita.E’ stata proprio questa “deviazione” a portarmi a scoprire, 12 anni fa ed ancora adolescente, la birra e l’universo microbiologico che vi si cela dietro; a differenza di molti homebrewers, infatti, non ho subìto il fascino di questo prodotto per averlo bevuto ed apprezzato, ma l’ho subìto per aver capito che lo si poteva produrre in autonomia con relativa semplicità e che, soprattutto, il metodo di produzione era molto stimolante ed in linea con la mia passione.Con questi presupposti, il passo dalle realizzazioni tradizionali alle realizzazioni inusuali – come per l’appunto le birre acide – è stato relativamente breve ed il primo a mostrarmi questo nuovo “mondo” è stato Fabiano Toffoli, del birrificio “32- Via dei Birrai”, che considero ad oggi il mio più grande maestro. La mia prima kriekè stata realizzata insieme a lui, figlia di una sua lontana tradizione;il nonno di Fabiano, infatti, viveva in una fattoria in Belgio ed era solito acquistare lambic per consumarlo in casa – esattamente come in Italia si acquista il vino in damigiane direttamente dal produttore –salvo poi buttargli all’interno delle ciliegie quando cominciava ad essere troppo vecchio. Ho sempre vissuto questi interessicome una pulsione continua verso la ricerca, intesa come studio finalizzato alla comprensione e all’applicazione dei suoi concetti, tuttavia, una volta cominciato a dedicarmi a batteri e lieviti non convenzionali, ho iniziato ad appassionarmi ametodi di produzione meno scientifici e più alchemici, tipici delle birre a fermentazione spontanea; in questi ultimi, infatti, è innegabile la presenza diazioni meramente “scientifiche”, ma esse trovano spesso origine da innumerevoli interazioni fra lieviti e batteri di specie diverse che ne rendono difficile la totale ed assoluta comprensione.
Come nasce una birra acida? Hai una metodologia specifica da cui originano tutte le produzioni?
Le mie birre acide partono dalla messa a fuoco di ciò che desidero avere nel bicchiere a prodotto finito, ma con la consapevolezza che il non sempre perfetto equilibrio di un inoculo e le modificazioni di alcune variabilinell’ambiente in cui operano i microrganismi richiedono il mio adattamento e la miaflessibilità, per ottenere un risultato il più vicino possibile a quanto volevo ottenere inizialmente. Talvolta, poi,le idee iniziali si auto-ridimensionano sulla base della disponibilità di materie prime di elevata qualità; all’interno del progetto “Asso di Coppe”, proprio quest’ultime assumeranno un ruolo sempre più importante perché vogliamo svilupparealcunefarmohusealeche si avvicinino il più possibile a quelle originarie, legandosi, quindi, alla tradizione della disponibilità di risorse che, di volta in volta, la “fattoria” offriva. Per tornare all’origine delle birre acide, attualmentei miei progettisi sviluppano partendo da due binari distinti: da una latocon l’utilizzo di tutti i mosti del birrificio BioNoc’ – con cui collaboro – che sono ovviamente già disponibili e sui quali sto già lavorando, utilizzando diverse botti, dall’altro con la preparazione di una baselambic che sarà pronta per le produzioni del 2018. In merito a quest’ultima, è arrivata in birrificiouna coolship di recente,ma al momento non lautilizzo per via di un ambiente non ancora adatto; temporaneamente, quindi, inoculo una miscela personale di ceppi microbici, selezionata e portata avanti da svariato tempo. In ogni caso, l’intenzione per il prossimo anno è quella di condurre una fermentazione spontanea sempre più in purezza, quando l’ambiente sarà ricco di lieviti e batteri “buoni”.
Per alcuni tipi di produzioni acide all’interno del birrificio convenzionale – o “birrificio pulito”, come sono solito chiamarlo – esiste poi una metodologia specifica che richiede, però, una premessa legata ad alcuni studi che ho condotto 3/4 anni fa. Infatti, grazie ad un laboratorio didattico di ricerca all’Università di Padova e in collaborazione con la Professoressa Angiolella Lombardi, ho avuto modo di realizzare un progetto che ha portato alla selezione di 13 ceppi – su 170 iniziali – di batteri lattici privi di off-flavours e sensibili al luppolo; in pratica, in presenza anche minima di luppolo (a partire da 6/8 IBU, per dare un’idea numerica), questi batteri muoiono, annullando i rischi di contaminazione tipici dei batteri lattici tradizionali. Far conoscere, accettare e diffondere questi nuovi microrganismi è stato un percorso lungo e tutt’altro che facile, complice un generale scetticismo iniziale, ma oggi sono assolutamente fiero delle numerose produzioni nazionali realizzate con essi. Ovviamente, data la loro peculiarità, è stato necessario stravolgere il tradizionale iter produttivo,sviluppando una nuova metodologia il cui “cuore” sta nel sourworting (o sourkettling), un’acidificazione con batteri lattici del mosto non luppolato, trattata anche da Michael Tonsmeire, nel suo libro “American SourBeer”, con il quale abbiamo inconsapevolmente lavorato in parallelo negli stessi anni; l’aspetto interessante di questo processo sta nel fatto che, grazie alla massiccia presenza di zuccheri e alla totale assenza di luppolo, l’acidificazione del mosto, che passa da un pH di 5.5 ad un pH di 3.5, viene raggiunta nel giro di 12/16 ore (anziché in uno o due mesi come avviene in un lambic) perché i batteri trovano le condizioni ideali per svilupparsi. Una volta completato questo step – solitamente l’indomani – si può quindi procedere con la bollitura che sterilizza la massae, successivamente, con tutte le restanti fasi di una produzione tradizionale, incluso l’inoculo di lieviti, comunque in grado di lavorare anche in ambienti conpH così bassi. Questo processo esula, quindi, dalle complessità della botte, dei brettanomyces o di un insieme di interazioni difficili da controllare, ma è un sistema facile e sicuro per produrre birre acide anche in contesti convenzionali;chi desiderasse approfondirlo, può trovarlo spiegato dettagliatamente sul sito www.latticinellabirra.it.
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Quali sono le principali differenze nel processo produttivo fra una wild o sourbeer e una birra “tradizionale”?
A mio avviso la differenza principale sta sia nel controllo dei processi, sia nella “giustezza” del mettere questo controllo in atto.Cerco di spiegarmi meglio…A parità di condizioni iniziali – quali la scelta dei malti, dei luppoli e dei lieviti – in unaproduzione a fermentazione alta o bassaposso controllare l’evoluzione di questo mix di elementi per portarlo al risultato desiderato; in una produzione a fermentazione mista o spontanea questo controllo è sì, in parte, applicabile, ma preferisco rinunciarvi, per non “infastidire” i batteri che stanno lavorando, adattarmi a quello che succede e capire quello che la stessa birra richiede, per giungere ad un prodotto che sia il risultato di una mediazione fra ciò che volevo io e ciò che ha voluto la natura.
Per concludere, cosa bolle di nuovo in pentola, o meglio, in botte? Puoi svelarci qualche anticipazione?
Innanzitutto posso affermare che le attuali linee alla frutta, su base sour, sono ormai considerabili una linea base a tutti gli effetti, benché sia previsto un ulteriore allargamento in futuro – anche su basi lambic – con l’utilizzo di fragole e, soprattutto, di frutti antichi quali le marasche (amarene selvatiche scure ed aspre), le marinelle (piccole ciliegie selvatiche) e le corniole (una drupa selvatica molto acida ed astringente).Parlando nello specifico di quest’ultime, a causa della loro scarsa produttività (e quindi redditività), le piante da cui originano non vengono più coltivate da diverso tempo ma, nonostante ciò, non è raro trovare quantità significative di frutti nati da alberi spontanei e destinati a restare per terra dopo la maturazione; per questo motivo abbiamo lanciato un bando per tutte quelle aziende agricole in possesso di queste tipologie di piante, affinché raccolgano e ci conferiscano questi frutti, a fronte, ovviamente, di un pagamento a parte nostra. Inoltre, come anticipato prima, abbiamo già in cantiere anche la realizzazione di un lambic, che uscirà – se all’altezza – nel giro di un paio d’anni, e di una geuze, per la quale abbiamo già riservato diverse botti per il prossimo triennio. Puntiamo, poi, all’ulteriore miglioramento di alcune produzioni, grazie alla scelta di fornitori con standard qualitativi più elevati; cito, ad esempio, la “AlbiCoppe” per la quale utilizzeremo quelle che vengono considerate le migliori albicocche d’Europa, prodotte in Trentino, raccolte solo ed esclusivamente una volta cadute dall’albero ed in presenza di buone condizioni meteorologiche.Infine, ribadisco la nostra intenzione di realizzare una linea di farmhouseale, che ambisco a portare ai livelliqualitativi delle produzioni di Phantôme e De GlazenToren, miei “miti” e riferimenti per questo stile, sia dal punto di vista professionale che umano.