28 Novembre 2015
La morte ha il gusto del luppolo: secondo capitolo
«Il posto è questo. Lì dentro ci sono i Frati. Però non ti consiglio di andare nel monastero».
«Perché, piccola…»
«Meredith, ma puoi chiamarmi Mery».
«E perché dovrei chiamarti con un nome che non è il tuo?»
«Perché mi piace di più. Ma fa pure come vuoi… tanto saresti il primo, da quando sono morti i miei genitori, che mi chiamerebbe in un modo diverso da “piccola stracciona” o “ladruncola”».
«Piccola Mery, ma nessuno dei tuoi compaesani si prende cura di te?»
«No. Siamo io, John e Sam. Siamo tre orfani e ci prendiamo cura l’un l’altro. Anche se in realtà io e John ci prendiamo cura di Sam. È il più piccolo ed è sempre malato» un colpo di tosse interruppe il monologo della giovinetta.
Alberico non era certo un medico o un curatore, ma si rese conto che quella tosse che affliggeva la bambina non era normale.
Era sicuramente un sintomo di qualcosa di più grave, rispetto ad un raffreddore… poteva addirittura essere uno di quei mali mortali che tutti gli inverni mietevano centinaia di vittime nella calda Roma; figurarsi quanti Cristiani morivano in quelle lande gelide!
E quella bambina, se quella tosse fosse stata veramente un sintomo di quei mali, non avrebbe superato l’inverno… non se avesse vissuto all’addiaccio come la mendicante che era!
Alberico era integerrimo e senza pietà per i Rei che andava cacciando, ma credeva che Dio non desiderasse la sofferenza dell’uomo, men che meno quella dei bambini!
Prese una decisione: si sarebbe preso cura di Mery e dei suoi compagni di sventura per tutto l’inverno.
In cuor suo, il prelato, sapeva che le indagini non sarebbero state semplici e che, ad ogni buon conto, errare per la Gran Britannia nei mesi freddi senza essere avvezzi a quelle condizioni climatiche significava morte certa o quasi!
Quindi si era già rassegnato a dover trascorrere l’inverno lì, in quel luogo insano e dimenticato; pertanto, giacché sarebbe restato in quei luoghi, perché non soggiornare facendo del bene?
«Dimmi, piccolina. Stavi consigliandomi di non andare nel Monastero… posso chiederti perché?»
«Perché i monaci sono cattivi…»
«Cattivi? Addirittura? E come mai?»
«Perché non ci danno mai da mangiare, neppure i loro avanzi… li danno ai porci piuttosto che darli a noi… e non ci fanno neanche entrare in chiesa; dicono che gli straccioni insudiciano la casa di Dio. E così non possiamo neppure ripararci dal freddo e dalla pioggia per un po’ di tempo, durante la Messa. Io non credo che sia giusto, però sono solo una bambina. Ma per me sono cattivi!»
Alberico sapeva che nei monasteri, soprattutto quelli di provincia, la pratica di distinguere tra ricchi e poveri era estremamente diffusa. Anche nelle grandi città vi era la suddivisione dei posti in funzione della ricchezza e dell’influenza, beninteso! Ma era differente: nelle grandi città, nelle chiese di grandi dimensioni, i ricchi avevano a disposizione panche e leggii, mentre i poveri erano relegati in piedi al fondo delle chiese. Ma gli era consentito l’ingresso nella Casa di Dio!
Quell’estremizzazione, quella che avveniva nei paesini di campagna come Bullhorns Town, della normale pratica di suddivisione in caste, era ingiusta.
Anche soltanto sotto il profilo “socio-politico”, i poveri rappresentavano la percentuale più ingente di Cristiani… impedire loro di frequentare le chiese e di accedere ai Sacramenti era un modo per minare l’esistenza stessa della Chiesa!
Il Frate inviato dal Vaticano decise di prendere in mano la situazione. Avrebbe risolto il suo caso e sanato qualche lacuna di cui, con ogni evidenza, i frati del luogo erano creatori e promotori.
«Capisco. E che cosa danno ai maiali i frati?»
«Tutto: dal pane, alla zuppa, dalla carne al pesce… e a noi basterebbe solo un tozzo di pane e magari un pezzetto di formaggio…» alla bimba vennero i lucciconi agli occhi; la sua fame ed il suo risentimento erano veri e puri.
«Dove sono i tuoi amici?»
«Sono al nostro rifugio. È poco fuori dalla città. Un vecchio fienile che non usa più nessuno. Ha un pezzo di tetto e ci mettiamo lì, con un fuocherello e tre cappe di lana che abbiamo rubato tre inverni fa».
«Ho capito. Hai voglia di andare a chiamarli?»
«Perché?»
«Perché da oggi i frati del monastero vi offriranno il proprio cibo».
«Mi stai prendendo in giro!»
«Assolutamente no. Te lo giuro».
«Perdonami, ma non mi fido. Tu vuoi solo liberarti di me per non dover pagare il tuo debito».
«Al contrario, voglio che tu ed i tuoi fratelli di sventura siate accuditi. Voglio pagare anche a loro il debito che ho con te».
«No! Tu adesso mi offrirai da mangiare. E poi ognuno per la sua strada! Sono piccola, ma non sono nata ieri!»
“Povera piccina, chissà quante ne ha passate!” pensò Alberico.
«E va bene, facciamo così: tu adesso verrai con me, mangerai, e poi andrai a chiamare i tuoi amici. Sta bene?»
«Sta bene! Sono curiosa di vedere come riuscirai ad ottenere da mangiare dai frati».
«Andiamo, piccolina. È ora che anche tu viva dei momenti felici».
I due procedettero verso il monastero.
Lei saltellava gioiosa, lui lo sguardo fisso sulla pietra, imbronciato.