5 Marzo 2016
La morte ha il gusto del luppolo: sedicesimo capitolo
Alberico si mise a correre a perdifiato, doveva dare l’ordine alle guardie di condurre dinnanzi a lui chiunque avesse una feria alla testa procuratasi di recente.
I capelli scuri erano un indizio ulteriore: in quelle lande erano in pochi a possedere una capigliatura tipica dei paesi che si affacciavano al Mediterraneo.
Il campo della ricerca si sarebbe ristretto, senza ombra di dubbio!
Poi avrebbe scambiato due parole con l’Abate; vi erano delle questioni da chiarire…
Alberico aveva un cruccio enorme che lo assillava, un dubbio amletico a cui voleva dare, quanto prima, risposta certa ed inopinabile.
Diede l’ordine ad uno degli armigeri di avvisare il Capitano Fredor di predisporre immediatamente le ricerche dei possibili sospettati e di farli arrestare preventivamente.
Il soldato corse via, verso il centro cittadino, senza discutere.
Subito dopo aver visto l’armigero correre come un fulmine, si diresse verso l’ufficio dell’Abate; quell’uomo sapeva qualcosa e lui l’avrebbe scoperto quel giorno!
A costo di torturare il vecchio!
Mentre si dirigeva, il passo spedito, verso l’ufficio del Priore di quella comunità, passò di fianco alle cucine del convento.
Non curante di ciò che stava avvenendo, non potè però esimersi dal percepire il profumo particolarmente invitante di una zuppa di farro e zucca.
Si stupì di ciò ma, ad ogni buon conto, era conscio che per chi continuava a calcare la Terra da essere vivente, la vita doveva andare avanti.
Nonostante tutto.
Nonostante la morte per omicidio di un confratello fosse avvenuta solo poche ore prima.
La cosa che realmente stupì il prete, però, fu che nell’odorare quel soave profumo, il suo stomaco brontolò: aveva fame.
La vita, in vero, andava avanti.
Mentre percorreva i corridoi del convento, sorpassò la cappella privata dei Frati, dove si svolgevano le funzioni all’alba ed al tramonto, quelle private dei prelati, quelle vietate al popolo.
Ed anche all’interno di essa vi erano frati intenti a pregare.
Da una finestra il cui vetro era opacizzato da decenni di mancata pulizia, egli notò che anche l’attività nell’orto interno alle mura procedeva.
Era come se ai frati non importasse nulla delle morti e che, inoltre, non si sentissero minacciati da quell’omicida.
Sorpassò velocemente anche la biblioteca e la sala delle attività di copiatura amanuense, dove i frati creavano copie dei libri custoditi nelle biblioteche, in modo da garantirne la continuità nei secoli.
Anche lì tutto procedeva normalmente.
Infine, poco prima di giungere dinnanzi alle porte dell’ufficio dell’Abate, Alberico sfilò di fianco all’infermeria del convento.
Con la coda dell’occhio vide che qualcuno stava medicando qualcun altro.
Subito passò oltre, convinto che qualche Fratello si fosse ferito una mano o una gamba con la zappa o con qualche altro attrezzo da lavoro.
Giunse davanti alla stanza che era la sua destinazione; chiuse il pugno e levò il braccio.
Mentre abbassava l’arto, le nocche della mano a pochi centimetri dall’uscio, nel chiaro intento di bussare, si bloccò.
Fu come una folgorazione.
Un fulmine a ciel sereno.
Una rivelazione Divina.
Nel cervello i frammenti di immagini che aveva intravisto con la coda dell’occhio mentre si lasciava alle spalle l’infermeria, si fecero più chiare e nitide.
L’uomo che era seduto sulla panca e che riceveva le cure era un frate.
Un frate dai capelli scuri.
Un frate che assomigliava molto a quello che sembrava averlo seguito per tutto il giorno…
Un Frate che stava ricevendo una medicazione in testa, sulla tempia sinistra!
«Dio Santo…» Alberico si lasciò sfuggire quell’esclamazione ad alta voce e, senza attendere oltre, si precipitò in infermeria.
Il prete spalancò la porta: un anziano frate era intento a cucire con ago e filo, in un’improvvisata sutura, il taglio sulla testa del giovane confratello.
«Ehi , voi! Fermo dove siete! Ho delle domande da…»
Il giovane, sapendosi evidentemente scoperto, spinse via il vecchio e, ago e filo penzoloni a fianco del volto, si precipitò verso la finestra e vi si gettò in mezzo.
Lo schianto dei vetri fu udibile in tutto il monastero.
L’infermeria era sita al pian terreno quindi, il fuggiasco, riuscì ad evitare un urto violento con il terreno facendo un ruzzolone.
Subito si rialzò in piedi e cominciò a correre a perdifiato.
«Non ci credo…»Alberico si lanciò all’inseguimento.
Il prete era meno giovane del fuggitivo, ma non meno scattante.
I lunghi pellegrinaggi ed i viaggi a piedi per tutta Europa avevano fortificato le sue gambe e la dieta spartana che consumava abitualmente, per sua scelta personale, gli aveva garantito un fisico snello ed atletico.
L’inseguimento era iniziato!
Più volte Alberico intimò al sospetto di arrendersi ed altrettante volte i suoi appelli furono ignorati.
Il giovane incrociò un gruppo di Frati.
«Fermatelo! È un assassino! Fermatelo, Fratelli!»
Ma come è logico, delle persone non avvezze alla violenza e dedite alla preghiera, non possono certo dimostrarsi degli eroi!
Ed allora, le pecore più vili si scostarono, mentre uno solo degli uomini in saio si frappose tra il fuggiasco e la propria libertà.
Un pugno sferrato con la potenza di un corpo lanciato in corsa colpì il coraggioso che, suo malgrado, cadde rovinosamente a terra.
«Diavolo!» Imprecò Alberico.
I cancelli del convento si avvicinavano sempre di più.
La libertà sembrava essere ad un passo per il ragazzo.
“Per tutti gli Arcangeli, corre come una lepre!” pensò l’investigatore, troppo affannato per proferir verbo.
D’un tratto la guardia che era restata a guardia dell’ingresso si parò davanti al Frate, la lancia in pugno:
«Fermo! Fermo! In nome della Legge, non potete uscire!»
«Fermatelo! Non deve uscire!» Ordinò trafelato Alberico.
Mai ordine fu eseguito con più solerzia.
La lancia del soldato trafisse il giovane.
Il ferro nell’addome, il corpo che cadeva a terra al rallentatore.
Lo sguardo di terrore di Alberico.
Lo sguardo vitreo del soldato che si stava rendendo conto di aver colpito a morte un uomo di Chiesa, un servo di Dio.
Lo sguardo fisso, gli occhi fuori dalle orbite del ragazzo vestito di marrone che stava precipitando a terra.
Alberico fu al capezzale del moribondo in un lampo:
«Parlami! Parlami ragazzo! Dimmi perché hai ucciso questi frati!»
Il respiro affannato di chi sente la vita abbandonarlo.
Il sangue in gola che serrava in una cupa ed agrodolce morsa le sue ultime parole.
«Avanti! Parla! Parla, per Dio!»
Un colpo di tosse.
Un fiotto di sangue dalle labbra e dalle nari.
Alberico guardò il giovane; nell’intreccio di canapa bianca che componeva il legaccio del saio, il prete notò un pezzo di materia organica, un frammento di unghia insanguinata; era sicuramente il pezzo che mancava dalla mano del frate freddato qualche ora prima.
«Parla! Dimmi qualcosa, dimmi perché!»
Con quello che sembrava essere il suo ultimo alito di vita, quasi a cercare una redenzione nella confessione, il giovane guardò negli occhi Alberico e, con un fiato, sussurrò:
«Io… io ho ucciso solo… solo l’ultimo… non c’entro con…» un colpo di tosse.
«E chi ha ucciso gli altri? Chi ti ha ordinato di…»
Il Prete venne interrotto dalla mano del moribondo che, sporca di sangue, gli chiuse la bocca:
«l’Abate… chiedi all’Abate e a McOwen…»
L’ultimo alito di vita abbandonò quel giovane.
L’ultimo sussurro lo aveva sentito solo Alberico.
Un flebile alito di vita che, abbandonando il corpo di un omicida, aveva portato con sé i nomi di chi, con ogni probabilità, tirava i fili di quella assurda vicenda!
L’investigatore Vaticano si levò in piedi: questa volta l’Abate avrebbe dovuto rispondere a molti quesiti…
Ed avrebbe dovuto farlo in modo molto convincente!