Numero 17/2016

25 Aprile 2016

Fenomeno crafty: strategie e prospettive, da BdB a Heineken

Fenomeno crafty: strategie e prospettive, da BdB a  Heineken

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L’acquisizione di Birra del Borgo da parte del colosso multinazionale AB-InBev, compagnia attiva nella produzione di bevande alcoliche e analcoliche e leader mondiale nella produzione di birra, è solo l’ultimo di una lunghissima serie di tentativi, quasi tutti rivelatisi un completo fallimento, da parte dei grandi birrifici industriali di entrare nel comparto delle birre artigianali, attraverso l’immissione nel mercato di nuovi prodotti, chiamati in gergo crafty per indicare l’imitazione perpetuata verso le birre prodotte da veri e propri birrifici artigianali. Adottando le classiche tecniche economiche di marketing, le industrie della grande distribuzione tentano ormai da tempo di sradicare quelle sempre più ampie nicchie di mercato che i birrifici artigianali si sono ritagliati nel tempo con merito e sacrificio. Come già evidenziato da eminenti osservatori del settore, si possono addirittura delineare 5 mosse con le quali l’industria si muove in maniera sistematica, così come indicate da Brad Tuttle in un interessantissimo articolo pubblicato dal Time nell’ottobre 2015:

1) Creare dei brand pseudo-artigianali con il solo obiettivo di attirare l’attenzione del consumatore, catturando un nuovo tipo di pubblico incuriosito dal concetto di birra di qualità, ma ancora poco esperto per distinguere le etichette di veri birrifici artigianali da quelle dell’industria.

2) Acquisire il controllo dei birrifici artigianali, con le classiche offerte “da non poter rifiutare” che mettono letteralmente con le spalle al muro il birraio di turno di fronte alle cifre che il mercato della birra industriale riesce a mettere sul piatto delle trattative.

3) Difendere la birra industriale ironizzando sui consumatori di quella craft, come fatto da Budweiser in un noto spot andato in onda sulle tv americane durante il Super Bowl 2015 in cui i consumatori di birra artigianale vengono dipinti come incapaci di godersi i piaceri del “normale” buon bere.

4) Controllare la distribuzione indipendente, attraverso operazioni molto meno appariscenti di quelle relative all’acquisizione di microbirrifici, potendo contare su una apparentemente inesauribile disponibilità economica in grado di inglobare tutto e tutti.

5) Fondersi per controllare il mercato, per poter aggredire contemporaneamente più fette di mercato in parti diverse del pianeta, laddove i birrifici craft non riescono, per ovvi motivi, ad arrivare.

 

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Tra gli innumerevoli fenomeni in questione possiamo elencare le Regionali di Birra Moretti, le Norden di Ceres, e quelli che a mio avviso si distinguono come i tentativi più noti, almeno sul mercato italiano: la sequenza luppolata del Birrificio Angelo Poretti e il recentissimo avvento sul mercato della H41 di Heineken. Uno dei primi casi è sicuramente quello di Poretti, marchio appartenente al gruppo Carlsberg, che più di tutti in Italia ha cercato in questi anni di mischiare le carte, appropriandosi di concetti e linguaggi tipici della birra artigianale, con una scelta che ha rivelato la sua curiosa passione per i luppoli. Pensate alle varie successioni luppolate rappresentate da una serie numerica che va da 3 a 10, ormai completa almeno finché Poretti non deciderà di cominciare a contare in doppia cifra, come molti ironicamente sostengono. In principio fu la 3 Luppoli, accolta dalla comunità degli appassionati con un misto di sorpresa e curiosità per la improvvisa attenzione dimostrata nei confronti di un ingrediente ignorato per decenni dall’industria: sebbene quel 3 esponesse il birrificio a facili ironie, furono proprio i numeri a caratterizzare l’intera linea, alla quale si aggiunsero la 4, la 5 e la 6 luppoli, non comparse sul mercato in questo ordine. A quel punto la strategia apparve chiara: se il luppolo è il concetto chiave su cui ha fatto leva gran parte della rivoluzione artigianale, perché non rivolgersi al mercato dei consumatori sfoggiando la stessa arma? Logica che non fa una piega, peccato che nel primo caso il luppolo è protagonista a livello organolettico, mentre nel secondo diventa un mero strumento di marketing con pochi riscontri in termini gustativi. Tuttavia non fu che il primo passo verso l’artigianalità, dalla quale successivamente prese in prestito altri concetti: memorabile a riguardo fu il lancio della 7 luppoli non filtrata che per la prima volta inserì in etichetta un valore molto caro al mondo craft: l’assenza di filtrazione. Ma la mossa eclatante arrivò qualche mese dopo, quando fu annunciata una versione estiva della stessa birra, battezzata 7 Luppoli non filtrata “Summer Cascade”: qui Poretti raggiunse forse l’apice della sua strategia di avvicinarsi alle tecniche di produzione dei microbirrifici, con un prodotto industriale che non solo veniva chiamato con termini tipici della produzione di birra artigianale, ma il nome si concludeva con quello della varietà americana di luppolo più influente degli ultimi anni. Si passò poi alle specialità stagionali: quattro birre per quattro diverse stagioni dell’anno, disponibili a rotazione: se vi ricordate le birre artigianali stagionali prodotte con gli ingredienti del periodo avete già la risposta al quesito. Non possiamo concludere senza un accenno agli esperimenti fatti da Poretti  nel microcosmo degli stili birrari: birre 8 e 9 Luppoli in cui sono più che espliciti i riferimenti ad alcuni degli stili classici del mondo craft, quali Saison, Wit, Porter e, su tutti, IPA. Dulcis in fundo chiudiamo il cerchio della numerazione con la 10 Luppoli, una “birra rosé”, della quale Poretti svela pochissimo in merito alla tecnica di produzione.

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Con H41, prodotto a tiratura limitata destinato ai mercati italiano e olandese, Heineken riesce a racchiudere in un colpo solo tutte le strategie comunicative e di marketing che le multinazionali stanno mettendo in campo in questa battaglia e che ormai tutti ben conosciamo: rendere gli ingredienti protagonisti assoluti, dopo che per anni nessuno della GDO ha avuto il minimo interesse a spiegare le fasi di produzione della birra, con una particolare attenzione incentrata su un raro lievito della Patagonia con cui si crede di poter attirare l’interesse dei fondamentalisti della birra. Altro punto di forza della strategia di Heineken è quello di guardare al passato, alle origini della tradizione, con slogan e soprattutto etichette in stile vintage che mirano a collocare storicamente l’immagine del prodotto in una tradizione che, in vero, non gli appartiene. Stessa cosa vale per la riscoperta di marchi, denominazioni e indicazioni fino a ieri abbandonati in soffitta, come il nome originale del birrificio (Heineken Brouwerij) e il finora sconosciuto nome del mastro birraio (Willem Van Waesberghe). Da non sottovalutare, inoltre, è la tendenza ad arricchire le descrizioni con riferimenti alle proprietà organolettiche, come le note di degustazione che accompagnano l’assaggio con frasi del tipo “H41 nasce da un lievito raro rinvenuto recentemente in Patagonia, 41° parallelo sud -71° ovest. Questa speciale rarità conferisce alla birra un gusto pieno e rotondo, con note speziate bilanciate da leggeri sentori fruttati.”

Questa nostra riflessione non deve però servire a descrivere una realtà, quella craft, come sottomessa inesorabilmente all’invasione della GDO, anzi il livello di ottima salute in cui versa il movimento brassicolo artigianale italiano e non solo è dimostrato da questa continua ricerca messa in piedi dai colossi della grande distribuzione finalizzata a intaccare prima e impadronirsi poi di fette di mercato sempre più ad appannaggio del mondo craft. Oggi il consumatore è più attento, colto, interessato a conoscere cosa ha nel bicchiere, cose impensabili anche solo 10 anni fa quando a malapena sulle etichette delle bottiglie venivano indicati gli ingredienti; per questo i grandi marchi stanno tentando con la loro forza, soprattutto economica, di recuperare il tempo perduto emulando il lavoro dei piccoli produttori.

Che sia un tentativo tardivo? Ai posteri l’ardua sentenza.

 

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