Numero 35/2020
26 Agosto 2020
A brewday
La Baia di San Francisco, in California, oltre all’omonima città situata sul promontorio meridionale che ne chiude la profonda insenatura, è costellata dalla presenza di diversi altri centri urbani, il maggiore dei quali è Oakland. Dimensioni a parte – San Francisco vanta circa 900 mila abitanti, contro i circa 430 mila di Oakland – i due centri, pur appartenendo a contee diverse, sono oggi considerate quasi città gemelle, il motore socio-economico dell’intera Bay Area, soprattutto da quando risultano collegate dal famoso San Francisco-Oakland Bay Bridge.
Proprio ad Oakland si è stabilito nel 2014 Tim Decker, uno dei protagonisti della inconsueta storia di brassaggio sperimentale che oggi raccontiamo. Originario di Fresno, capitale della Central Valley della California, basta solo dargli uno sguardo (un omone dalla testa completamente rasata, un lungo barbone rossiccio molto ben curato ed un ventre prominente non meno di quello di chi scrive) per averne restituita l’immagine prototipica del birraio. Ma, fisicdurole a parte, Tim ha anche studiato al celeberrimo SiebelInstitute of Technology di Chicago, uno dei migliori posti al mondo dove imparare a fare la birra. E poi è giudice del BeerJudgeCertificationPrograme oggi responsabile commerciale del South City Ciderworks, una sidreria di San Bruno, a sud di San Francisco, proprio vicino al San Francisco International Airport.
.
.
Ma è anche, o comunque è stato, molto di più. Da giovane ha organizzato per anni concerti punk e heavymetal ed è stato un affermato homebrewer nell’area di Sacramento, a circa 120 chilometri a nordest di San Francisco. Nel 2012 è diventato birrario professionista, iniziando un pellegrinaggio da brewer nomade e collaborandoprincipalmente nella realizzazione di interessanti farmhousealecon la ShadyOakBarrel House di Santa Rosa a nord di San Francisco (Sonoma County, California) ed altri birrifici locali. E poi è il fondatore di AltBrau, un blog di homebrewingcon aspirazioni di impresa pienamente produttiva che,a causa della pandemia da Covid-19, un po’ come moltissime altre iniziative dappertutto sul pianeta, è rimasto nel guado, nella difficile transizione da attività amatoriale a professionale.
Il 2020 avrebbe dovuto essere proprio l’anno di Tim Decker. Ottenuta la licenza legale aveva in animo di brassare alcune birre come beer-firm, magari appoggiandosi proprio alla ShadyOak, già in primavera. Nel frattempo avrebbe continuato a cercare partner commerciali e finanziari per il suo progetto. In realtà è lo stesso conceptAltBraua rimanere piuttosto indefinito, perfino per il suo stesso ideatore (pub? beer-firm?),coinvolgendo inevitabilmente anche il suo personale destino professionale (birraio a contratto? birraio nomade?).A domanda diretta egli però non famistero della sua aspirazione, se disponesse delle necessarie risorse, di intraprendere una carriera da blender. Al momento, tuttavia, i suoi estimatori sparsi nella Bay Area e dintorni, dovranno accontentarsi di ritrovare nei vari bar e pub del comprensorio, più che le sue birre ed i suoi blend, i suoi famosi stickers con il simbolo di AltBrau, un contorto serpente sormontato da un teschio sul quale è appoggiato un bicchiere con manico.
Il suo focus brassicolo rimangono le farmhouseale prodotte con colture miste. È naturale quindi che, rispetto ai birrai che si impongono di seguire pedissequamente i rigidiprotocolli di brassaggiodelle lager tedesche, Tim ritiene che brassare debba essere un processo più naturale, realizzato allentando le briglie del controllo e lasciando che la natura giochi un ruolo più rilevante nel processo.L’obiettivo finale, nella sua visione, è produrre birra utilizzando il metodo europeo tradizionale, magari con qualche apporto di modernità. Lo stesso nome del progetto, AltBrau,in tedesco vuol dire letteralmente «birra vecchia», ma non rinuncia a giocare sull’ambiguità,aggiungendoad «alt», il possibile significato di alternative–alludendo alle opzioni passato e futuro od anche vecchio mondo e nuovo.
Nel mondo moltissimi birrai stanno percorrendo percorsi paralleli di recupero e reinterpretazione delle tecniche tradizionali diffusamente in uso nelle fattorie del Nord Europa fino a non molti decenni fa. Dobbiamo immaginare un’agricoltura completamente diversa da quella, industriale, che vediamo nei campi oggigiorno. L’agricoltura pre-industriale riciclava efficientemente ogni genere di rifiuto organico, ivi compresi quelli umani provenienti dai centri urbani, non faceva uso di fertilizzanti di sintesi, né diserbanti o fitofarmaci. All’interno di questo modello, era pratica comune la rotazione agraria, che contribuiva a conservare indefinitamente la fertilità del suolo. Inoltre, l’attività agricola veniva praticata risparmiando tratti più o meno vasti di vegetazione naturale, magari nei paraggi più scoscesi del territorio o nelle vicinanze dei corsi d’acqua. Questi spazi naturali o seminaturali, che molti anni dopo l’ecologia avrebbe elevato al rango di aree di notevole interesse ecologico (come aree rifugio per molte specie vegetali e/o animali, od anche come corridoi ecologici), per secoli hanno costituito imprescindibili giacimenti di risorse ad uso delle comunità rurali. Materiali da costruzione, carburante, alimenti. L’agricoltura del tempo era quella che oggi definiremmo, enfaticamente,multifunzionale. Gli stessi agricoltori, potevano contare su una conoscenza enciclopedica di tutte le risorse naturali del loro territorio, e non soltanto quelle relative a piante ed animali da reddito, ovvero coltivati o allevati. Insomma, esisteva un patto di stabilità, di equilibrio, di reciproca conservazione tra uomo e natura. Ed una attività parecchio diffusa, e di cui oggi si è quasi persa memoria, era quella che oggi chiamiamo foraging, ovvero la raccolta in natura di piante spontanee a fini alimentari. In italiano, il termine fitoalimurgia indica l’alimentazione attraverso piante spontanee in condizioni di necessità.
.
.
Era una pratica di grande rilievo sia per l’apporto netto di calorie e principi nutritivi nella dieta, ma anche per assolvere ad alcune funzioni specializzate. In un mondo con pochi collegamenti e comunicazione quasi inesistente era imprescindibile che le singole aziende agricole fossero il più possibile autosufficienti. Oggi basta qualche click sulla tastiera del nostro pc o dello smartphone per procurarci praticamente qualsiasi materia prima, ma in passato non era così semplice. Le erbe aromatiche, amaricanti, stabilizzanti necessarie per produrre le farmhouse ale non erano disponibili sottovuoto ed a temperatura controllata come oggi, ma dovevano essere raccolte in natura. Anche questa attività ha un nome in inglese, wildcrafting, ossia produrre birra con il contributo di piante raccolte in natura. E sta ritornando questa pratica, sta ritornando prepotentemente. Un po’ moda, un po’ crescente consapevolezza ambientale e la stessa idea di gruit si è rivelata ancora oggi il miglior sistema per legare una produzione brassicola intimamente e riconoscibilmente al territorio di provenienza. La qual cosa pare debba assumere crescente importanza, non fosse altro che per distinguersi in un mercato alquanto saturo (il riferimento è ovviamente al mercato nordamericano, ma potrebbe valere anche per altri grandi comprensori brassicoli) di produzioni relativamente uniformi, accanitamente appiattite sul consunto refrain dell’iperluppolatura. Se poi alle piante spontanee, con tutta la complessità di sensazioni che possono regalare, tali esperienze brassicole si associano fermentazioni selvagge (o almeno miste) allora il gioco è fatto.
Ma ora veniamo alla nostra storia, che risale in realtà ad un paio d’anni fa. Tom e Wim Jacobs del birrificio Antidoot Wilde Fermentendi Kortenaken (Belgio) hanno invitato diversi birrai nella loro farmhouse brewery subito dopo aver tutti partecipato al Carnival e Brettanomyces, un festival di quattro giorni interamente dedicato ai Brettanomyces e ad altri microrganismi fungini e batterici selvaggi, che si tiene annualmente ad Amsterdam. Obiettivo del festival è educare il pubblico ed informare gli addetti ai lavori sull’enorme gamma di birre prodotte grazie all’impiego di questi outsider della fermentazione. E poi folli bevute, seminari, workshop, degustazioni, abbinamenti col cibo, etc. con un numero di esperti convenuti in Olanda da tutto il mondo. Ed è proprio nell’imminenza del famoso festival che qualcuno ha avuto l’idea di proporre, tra il serio ed il faceto, un progetto brassicolo condiviso, certamente sperimentale, ma anche parecchio lungimirante. Il progetto consisteva essenzialmente nel brassare una birra ispirata al Lambic, ma addizionata con erbe raccolte in 5 diversi paesi da 5 diversi birrai. Così, ogni brewer invitato ha portato con sé dal proprio paese erbe spontanee raccolte in natura. Potrebbe essere l’atto certificato di inizio di un nuovo stile birrario, che fra l’altro, dovrebbe essere identificato da un acronimo ben noto ai birrai italiani, IGA, che nello specifico, vista la provenienza degli ingredienti non dovrebbe significare Italian Grape Ale ma International Gruit Ale.
.
.
Grist di malto pils, malto pale, frumento non maltato. I luppoli invecchiati sono stati aggiunti in bollitura, mentre le “erbe” sono state immerse nel mosto caldo al momento del trasferimento di questo nel koelschip (coolship in inglese). Il travaso in questo largo e basso contenitore in rame, come certamente i lettori sanno, ha lo scopo di agevolare il raffreddamento del mosto bollente e, contestualmente, consentirne il contatto con l’aria, cosa che permette ai microrganismi selvaggi di inoculare spontaneamente il mosto.
Oltre a Tim Decker (AltBrau), che ci ha raccontato questa originalissima giornata di brassaggio nella campagna fiamminga, ed ai padroni di casa, i fratelli Tom e WimJacobs (Antidoot WildeFermenten), hanno preso parte a questo esperimento Jan Kemkerdella Brauerei Kemker, un’azienda agricola con birrificio situato nella campagna di Alverskirchen, un piccolo villaggio vicino Münster, in Germania. Alla Kemker producono birre e sidri ispirati alla storia locale ed all’agricoltura di territorio, utilizzando con grande competenza la microflora locale. Fai il tuo viaggio nel lato selvaggio della birra! è il motto della Kemker. Altro partner del progetto è stato Aiden Robert Jönssondel birrificio Bretty Fingers Wild &Rustic Ales di Fjärdhundra, in Svezia, specializzato in birre con tendenze rustiche. Un birrificio agricolo con la passione per la sperimentazione, la complessità, l’equilibrio ed il senso del posto, nel quale vengono rivendicati aromi da processi, ingredientie microflora selvaggia senza troppi compromessi. Vincent Gerritsene Mattias Terpstr adi Nevel Artisan Ales, di Nimega (Olanda) rappresentano il quinto ed ultimo partner del progetto, che, nella loro attività quotidiana puntano tutto sulla produzione di birre a fermentazione selvaggia prodotte con ingredienti locali, biologici e frutto di foraging. A questo punto la compagine avrebbe dovuto essere completa, ma alla fine si è aggiunto un sesto componente, non ufficiale, della partita: Raf “Soef” Souvereyns, della Bokke (prima Bokkereyder)blendery di Hasselt, nel Belgio orientale, specializzata in blending di lambic e saison.
Questi i protagonisti umani dell’impresa. Vediamo ora quali sono stati i protagonisti vegetali. Del grist abbiamo già detto: malto di Hordeum vulgare e Triticumaestivum non maltato. In bollitura è stato aggiunto luppolo (Humulus lupulus) invecchiato, come pure nel coolship, come d’uso nella tecnologia del lambic. Oltre questi ingredienti base, i padroni di casa, i fratelli Jacobs, hanno fornito anche una discreta quantità di Myrica gale (Myricaceae) raccolta per l’occasione nei dintorni della loro fattoria, su loro richiesta, da loro generoso genitore. Anche conosciuta come mirica, ed in inglese bog-myrtle o sweet gale, è una specie tipica delle depressioni umide dell’Europa nord-occidentale e del nord America, e soprattutto, è stata per secoli una delle colonne portanti del gruit. Tim Decker, dalla California ha portato con sé altre due specie notoriamente brassicole, Umbellularia californica (Lauraceae) e Artemisia douglasiana (Asteraceae). La prima, il cui nome comune in italiano è alloro della California, mentre in inglese viene identificata da molti nomi diversi (California baylaurel, California bay, California laurel, Oregon myrtle, pepperwood, spicebush, cinnamonbush, peppernuttree, headachetree, mountain laurel, balm of heaven) è specie endemica di California e Oregon; la seconda, l’artemisia di Douglas (California mugwort, Douglas’ssagewort, dreamplant), è endemica degli Stati Uniti occidentali. Entrambe sono state ampiamente utilizzate in precedenza, oltreoceano, nella produzione di gruit. Dalla vicina Olanda, Vincent Gerritsene Mattias Terpstrahanno fornito provvigioni di Heracleum sphondylium (Apiaceae), nota anche come panace o spondilio (in inglese cow parsnip, eltrot), specie brassicola presente, a macchia di leopardo, in tutta Europa. Aiden Jönsson ha invece portato con sé, dalla Svezia, Galiumaparine (Rubiaceae), specie brassicola eurasiatica piuttosto comune, e Rosasp. della quale purtroppo non è stato possibile risalire con certezza alla specie. Ancora oggi non è affatto chiaro quali piante Jan Kemker abbia in realtà portato dalla Germania. D’altro canto appare comprensibile che taluni ricordi, già piuttosto confusi a suo tempo per effetto della lauta bevuta che ha accompagnato quella giornata memorabile, siano stati ulteriormente affievoliti dal tempo.
.
.
Pare comunque che il suo contributo vegetale alla cotta sia stato essenzialmente a base di Achillea millefolium (Asteraceae), specie cosmopolita comunemente nota come millefoglio o achillea millefoglie(yarrow in inglese), altro imprescindibile componente storico del gruit. Neanche Jan, a distanza di due anni, giurerebbe di aver raccolto dal giardino di Antidoot il materiale per questo suo presunto contributo vegetale, mentre metterebbe la mano sul fuoco di aver contribuito alla realizzazione di quella originale International Gruit Alecol sudore versato e la polvere respirata per preparare il birrificio ad accogliere la compagine internazionale di birrai. Ultimo contributo, del tutto estemporaneo ed inaspettato, quello dell’outsider Raf Souvereyns, il quale ha pensato bene di raccogliere qualche foglia di carciofo (Cynarascolymus, Asteraceae), sempre dal giardino di Antidoot, e buttarla proditoriamente dentro il coolship. Tim e gli altri ipotizzano che achillea e carciofo abbiano potuto contribuire al prodotto finale, oltre che con amaro ed aromi, anche con qualche popolazione autoctona di microrganismi, ma per non correre rischi ulteriori ciascuno ha portato le proprie colture domestiche di microgranismi fermentanti. Effettuato l’inoculo il prezioso liquido è finito ad invecchiare per diversi mesi in botti di rovere.
A ciascuno dei partecipanti è stata lasciata ampia libertà di scegliere quali piante portare, sebbene, fatalmente sia poi sorta una discussione circa cosa avrebbe potuto funzionare e cosa no. Era prevedibile, anche se poi neanche così scontato, che le proprietà antibatteriche ed antiossidanti delle erbe (luppolo incluso, ovviamente) avrebbero prodotto una birra meno acida del necessario, a causa della loro azione sui batteri responsabili della produzione di acido lattico. Ed è qui che interviene la sensibilità e l’arte del blender. Infatti, Tom Jacobs ha aggiunto una certa quantità di birra da un’altra botte, finché acidità ed altri parametri non hanno raggiunto il livello desiderato. Le caratteristiche finali della birra prodotta grazie a questa multinazionale della botanica erano quelle di una birra incredibilmente equilibrata, con una rinfrescante nota di menta, amaro equilibrato con carattere resinoso, un finale secco ed una bella sensazione in bocca dovuta agli oli e ai tannini, senza traccia alcuna di astringenza. Il profumo era esattamente quello che c’era nella stanza del coolship mentre le piante maceravano nel mosto fumante.
Insomma, Aiden, Tome Tim hanno dato vita all’idea di brassare assieme subito dopo il Carnival e Brettanomyces. Poi Tom ha invitato altri birrai a cena e l’idea ha cominciato a prendere forma. Oggi possiamo dire che quella birra è essenzialmente una storia di amicizia e cameratismo. Birrai che si ammirano a vicenda, rispettano i rispettivi approcci al brassaggio, imparano gli uni dagli altri sui più diversi argomenti. Alcuni sono solo homebrewer, altri sono già sul mercato da qualche anno. Alcuni di loro sono alquanto idealisti e romantici sulla produzione della birra e aiutano gli altri a non diventare troppo cinici. È proprio brassare in questo modo che li mantiene motivati. E d’altronde si tengono ancora in contatto e non aspettano altro che la pandemia sparisca per ricominciare a vedersi e realizzare nuovi progetti. Di sicuro hanno tutti imparato, e lo insegnano anche a noi, che la collaborazione porta sempre buoni frutti, ma anche che prendere qualche rischio, attraverso ingredienti e processi inusuali, può produrre una grande ricompensa.
Quello che colpisce in questa esperienza transnazionale di brassaggio, e che mi ha convinto meritasse di essere raccontata, oltre ai pur intriganti aspetti umani, è proprio l’uso consapevole che questi birrai hanno fatto delle altre piante brassicole, quelle che solitamente non costituiscono main ingredients del brassaggio. Come botanico, ovviamente, sono pronto a riconoscere di essere di parte. Tuttavia, sono persuaso che sarebbe superficiale derubricare una simile esperienza a cotta sociale (ancorché transnazionale)realizzata sorseggiando robuste farmhouse ale. C’è di più. Ci dev’essere per forza. E certamente il suo significato travalica la bontà di quella birra transnazionale. Questi temerari del brassaggio tradizionale, anche nella loro attività quotidiana, non sembrano granché preoccupati dei limiti commerciali impliciti nella loro specificità produttiva. Consapevoli che le farmhouse ale, e in special modo gli autentici esempi storici di queste birre, non saranno mai popolari come le IPA o le lager, lo sono altrettanto del fatto incontrovertibile che tra coloro che assaggiano le loro birre, un certo numero se ne innamorerà perdutamente, diventando consumatori specializzati e fidelizzati. Pertanto, sebbene l’idea stessa di farmhouse brewing sia in qualche misura l’antitesi del commercial brewing, un’interessante specifica nicchia di mercato per queste birre in realtà esiste, e resiste. E questo anche grazie alle altre piante che fanno di una birra qualcosa di unico ed indissolubilmente legato ad un territorio. E allora dobbiamo chiederci quante altre nicchie, più o meno importanti, esistono potenzialmente nel mercato brassicolo.
Se c’è quindi qualcosa che possiamo imparare da questa esperienza è prestare attenzione alle autentiche risorse del territorio, conferire cioè, attraverso la flora autoctona di un territorio, una più spiccata personalità e identità alle produzioni, rendendo univoca l’identificazione con l’area geografica di provenienza. Il Movimento della Birra Artigianale Italiana, non lo dico certo io, ha dato, come sistema, ampia prova di sé e della sua capacità di innovare e competere a tutti i livelli. Il Movimento, ha inoltre fatto passi da gigante nella direzione della valorizzazione brassicola della cosiddetta agrobiodiversità, le piante coltivate, declinate sull’intero territorio nazionale attraverso un numero sorprendente di cultivar legate perlopiù a territori piccoli o piccolissimi. Il Movimento ha trovato dentro di sé la forza per proporre uno stile tutto italiano, il famoso ItalianGrape Ale, che ha consentito la valorizzazione di alcuni dei moltissimi vitigni autoctoni che il nostro Paese può vantare. Fermo restando che è senz’altro possibile ancora fare molto con piante coltivate e vitigni, rimane un ultimo straordinario giacimento di potenziali ingredienti per la birra artigianale italiana, la nostra flora spontanea. L’Italia possiede un ineguagliato patrimonio di piante spontanee, oltre ottomila specie (e sottospecie) autoctone. Si tratta quindi di organismi viventi che si trovano nel nostro territorio non perché ce le abbia portate l’uomo, ma per effetto dei processi naturali di evoluzione e dispersione verificatesi nel corso di milioni di anni. Tante di queste specie sono endemiche, ovvero esclusive del territorio italiano o di parte di esso. Molte, moltissime di queste specie sono in tutto o in parte commestibili (a titolo orientativo, la flora calabrese conta circa 2700 specie, delle quali circa 1000 sono commestibili!), molte vantano proprietà terapeutiche ormai riconosciute anche dalla scienza. Questo universo ancora sottoutilizzato potrebbe fornire al processo di brassaggio aromi, zuccheri semplici, amido, potere amaricante e perfino potere batteriostatico. Queste piante si trovano in gran quantità, più o meno indisturbate, un po’ dappertutto lungo la nostra meravigliosa penisola, isole comprese. Sarebbe senz’altro un vero peccato se il Movimento della Birra Artigianale Italiana, ma anche ogni singolo birrificio, non approfittassero di questa grande opportunità per differenziarsi nettamente, valorizzando questo enorme patrimonio di biodiversità che è lì, a portata di mano, in attesa che qualcuno cominci a distogliere lo sguardo ipnotizzato dai soliti main ingredients.
Ringraziamenti
Tutta la mia gratitudine ai protagonisti di questa interessante esperienza di brassaggio collettivo e soprattutto a Tim Decker (AltBrau) il quale, oltre a regalarci una bellissima storia, ha fornito le fotografie, e soprattutto mi ha assistito pazientemente in ogni fase della predisposizione di questo articolo, rispondendo senza battere ciglio a tutte le mie incalzanti domande. Thankyou Tim.