Numero 06/2018
8 Febbraio 2018
Peroni rilancia il marchio Dormisch
Se parlate con un udinese di, diciamo, almeno una cinquantina d’anni, sotto il profilo birrario i suoi nostalgici capisaldi saranno due: Moretti e Dormisch, i due storici marchi cittadini, entrambi “persi” una trentina d’anni fa – il primo con il passaggio di mano tra diversi gruppi fino ad arrivare a Heineken, che produce la Moretti nei suoi stabilimenti in altre zone d’Italia; e il secondo, acquisito da Peroni, con la chiusura nel 1989. Ed è in questo quadro che si inserisce la decisione di Birra Peroni – ora parte del gruppo giapponese Asahi – di rilanciare il marchio Dormisch, puntando sul fattore della territorialità e del recupero di questa memoria storica. Un’operazione per certi versi analoga a quella del “recupero” di Italia Pilsen a Padova, avvenuto un paio d’anni fa, e che si concretizzerà in modo sempre più organico nei prossimi mesi.
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Punto cardine di questo recupero è l’utilizzo unicamente di orzo friulano, fornito da Asprom – rete di aziende agricole della bassa friulana, che già dal 2012 ha avviato ed incrementato la coltivazione di orzo distico per la maltazione. Sono un’ottantina al momento le realtà aderenti – numero in crescita, ha assicurato il presidente Alido Gigante – per 370 ettari di superficie coltivata e una produzione di circa 1000 tonnellate; e che si prevede cresca fino a 1500 già l’anno prossimo. Il lotto “di lancio” della Dormisch è stato realizzato con l’acquisto di una prima tranche di 400 tonnellate; in base alla reazione del mercato, ha spiegato il direttore relazioni esterne di Birra Peroni, Federico Sannella, verrà definito in maniera più precisa il volume di produzione e le modalità di distribuzione – per ora si è partiti con il settore horeca.
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L’orzo viene poi maltato nella malteria Saplo di Pomezia (Roma), di proprietà della Peroni, mentre la produzione avviene a Padova – lo stabilimento più vicino al Friuli. Il legame con le origini sta poi – oltre che nella materia prima – nella ricetta e il relativo processo di produzione, recuperati nella loro forma originale dal mastro birraio Raffaele Sbuelz – friulano, che aveva lavorato nel birrificio udinese prima della chiusura. L’operazione di rilancio, ha spiegato la brand manager Camilla Cicerchia, ha compreso anche lo studio della bottiglia e della grafica dell’etichetta: un richiamo sì alle origini, con l’aquila friulana al centro, ma ammodernata al tempo stesso, soprattutto per quanto riguarda la forma della bottiglia.
Ad esprimere soddisfazione per il rilancio di Dormisch sono stati in particolare gli amministratori locali, dal sindaco di Resiutta (paese montano in provincia di Udine dove Francesco Dormisch aprì il primo birrificio nel 1881) Francesco Nesich, l’assessore alla attività produttive di Udine Alessandro Venanzi, e l’assessore regionale all’agricoltura Cristiano Shaurli: tutti hanno sottolineato come una simile operazione dia un forte impulso alla filiera agricola regionale dedicata alla produzione birraria – ricordiamo che la Regione Friuli Venezia Giulia, tramite il suo ente Ersa, si sta occupando anche di sviluppare la coltivazione di luppoli – e costituisca un’occasione di rilancio anche per Udine e il Friuli nel resto d’Italia.
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Venendo alle note tecniche sulla birra, si tratta di una lager chiara di 5 gradi alcolici, 11,3 gradi plato e 20 Ibu. Personalmente ho avuto anche l’opportunità di assaggiarla: si tratta di una birra in stile, dagli aromi di luppoli nobili e di cereale come d’ordinanza, corpo più pieno e rotondo (per quanto comunque leggero e snello) di quanto ci si sarebbe potuti aspettare da una birra da 11 plato, finale fresco e secco di un amaro leggero e non persistente. Una birra che, nel listino di una multinazionale come può essere Asahi, è sufficientemente “neutra” da andare incontro ai gusti di un vasto pubblico, ma allo stesso tempo più caratterizzata rispetto alla classica international lager per mirare ad una nicchia di mercato più specifica.
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Rimane, a mio avviso, una perplessità, ossia la dicitura “Originale processo produttivo ad infusione” riportata in etichetta: l’infusione è infatti il processo più comunemente utilizzato, per cui è lecito chiedersi in che cosa consista la peculiarità. La spiegazione che ho ricevuto è appunto quella relativa al recupero dell’antica ricetta e metodo di lavorazione, ma personalmente ritengo che questa dicitura potrebbe risultare ambigua nei confronti del consumatore – che potrebbe intendere che l’infusione in sé sia un processo “originale”, quando l’aggettivo “originale” va invece riferito alla ricetta e procedura di ammostamento. Un chiarimento, insomma, sarebbe opportuno.