5 Maggio 2014

Birra: una invenzione dei Sumeri per conservare l’orzo!

Birra: una invenzione dei Sumeri per conservare l’orzo!

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Una nostra giovane lettrice, Federica di Bari, mi ha chiesto alcune informazioni per realizzare una ricerca scolastica sulle modalità di conservazione dei cibi applicate dagli uomini antichi e, nello specifico, se la birra, come il pane, può essere considerata un modo per prolungare la conservabilità del grano e dell’orzo: nel Medioevo, i monaci nei periodi di digiuno si sostenevano con questa bevanda, considerata appunto “pane liquido”.

Quale modo migliore di rispondere se non con un articolo dedicato a tutti gli internauti?
Naturalmente, anche considerate le esigenze di semplificazione del caso specifico, questa digressione avrà sì un taglio tecnico, ma soprattutto divulgativo e, quindi, sarò obbligato ad alcune “imprecisioni” ed “approssimazioni”.
In primis, però, voglio esprimere profonda gratitudine a quegli insegnanti che, oltre alle canoniche materie di scuola, affrontano argomenti così importanti, come quello dell’alimentazione, impegnandosi a trasmettere alle giovani generazioni i valori storici e tradizionali dei nostri cibi, le conoscenze compositive e produttive sugli alimenti, la capacità critica di scelta di ciò di cui nutrirsi… insomma, la cultura del cibo!
La prima, legittima, domanda da porsi è quando l’uomo ha “inventato” la conservazione. Sicuramente la capacità di conservare i cibi si è sviluppata non appena i nostri antichi antenati hanno acquisito la posizione eretta: testimonianze storiche indicano che la cottura alla brace era già conosciuta fin dal 500.000 a.C. come tecnica adatta per eliminare parassiti e batteri e rendere il cibo più gradevole al gusto e più digeribile.

 

La cottura, però, di fatto, soprattutto riferita a quel contesto storico, è da considerarsi non tanto una modalità di conservazione, quanto un sistema di risanamento, ovvero una tecnica in grado di rendere commestibili cibi anche già alterati ed inidonei come tali sotto il profilo gustativo ed igienico al consumo.
Di conservazione vera e proprio si può parlare solo alla luce di alcune scoperte ed invenzioni, su cui si basano le tecniche di conservazione.
Una osservazione “scientifica” semplice ed empirica, che anche gli antichi uomini hanno dedotto è che gli alimenti si conservano meno a lungo se contengono più acqua. L’acqua, infatti, consente lo sviluppo dei microrganismi che alterano gli alimenti e velocizza anche tutte le reazioni chimiche causa dei deperimenti e della perdita di valore nutritivo. Il principio su cui si fonda la maggior parte delle tecniche di conservazione attuali e del passato è, quindi, quello di rendere non disponibile l’acqua dei cibi ai microrganismi ed ai reagenti chimici: questo è realizzabile o eliminando fisicamente l’acqua dall’alimento, oppure, aggiungendo all’alimento delle sostanze in grado di “legarsi” con l’acqua, o ancora rendendo l’acqua incapace di reagire.

 

Un altro mezzo è quello di far sviluppare microrganismi non alteranti, in modo da causare delle trasformazioni dei cibi freschi in prodotti comunque commestibili (se non più buoni) e più conservabili (in quanto costituiti da elementi di scarto dell’attacco microbico desiderato).
Un’altra tecnica, già conosciuta in passato, ma sviluppatasi grandemente con lo sviluppo della chimica di sintesi è l’addizione al cibo di sostanze tossiche per i microrganismi (i conservanti), in modo da impedirne la proliferazione. Altri sistemi si basano sul creare condizioni ambientali tali da rallentare la velocità di proliferazione dei microrganismi e di sviluppo delle reazioni.

 

 

Fatte queste premesse, poniamo una lente di ingrandimento sulla birra.
La prima vera e propria tecnica di conservazione è l’essiccazione. Questa è una pratica la cui origine affonda nella notte dei tempi, scoperta probabilmente in modo casuale. L’essiccazione naturale, l’unica tecnica applicabile in antichità, si basa sulla eliminazione dell’acqua per semplice esposizione al sole.
È, quindi, plausibile supporre che nel passato, qualche uomo primitivo abbia notato che, ad esempio, una carcassa di animale, piuttosto che un frutto, o un seme di grano (già naturalmente a basso grado di umidità residua al momento della raccolta) rimasti esposti al sole cocente si mantenessero commestibili per un periodo più lungo dei rispettivi alimenti freschi. Questa constatazione era poi semplicemente replicabile, in quanto non era necessario l’uso di particolari strumenti oltre a quelli già conosciuti all’epoca. Grazie a tale pratica gli antichi uomini sono riusciti a conservare per periodi relativamente lunghi i cereali, anche all’interno di granai o semplici contenitori protetti dalle avversità atmosferiche e dai roditori.

 

Certamente l’essicazione, la sfarinatura, seguita da impasto, cottura ed eventuale successiva essiccazione del prodotto cotto derivato dai cereali ha permesso la produzione dei primi pani (lievitati e non), con durata utile ancora più prolungata.
Ma di tecnologie vere e proprie si può parlare solo dopo la nascita dell’agricoltura, avvenuta circa 8.000 anni fa, che ha permesso una produzione continua di alimenti. Tra il 4000 e il 2000 a.C., i Sumeri della Mesopotamia utilizzarono le fermentazioni microbiche per produrre il primo formaggio. Sempre i Sumeri avviarono, circa 5000 anni fa, la produzione di birra, un ottimo metodo alternativo per conservare i cereali e per avere una bevanda meno pericolosa per la salute rispetto all’acqua malsana disponibile a quel tempo.
Le tecniche fermentative sfruttano la teoria di far sviluppare microrganismi utili su alimenti freschi, in modo da rende impossibile lo sviluppo di altri microbi alteranti.

 

Un esempio pratico: il mosto di birra (ai tempi un semplice impasto di acqua e grani pestati, molto diluito) viene fermentato dai lieviti di birra (Saccharomyces cerevisiae) che si nutrono dello zucchero dell’uva formando l’alcol, che è una sostanza microbica di scarto. Se nel mosto non si sviluppassero questi lieviti utili, potrebbero crescere batteri acetici, o muffe, o ancora batteri lattici, che renderebbero non commestibile il prodotto.
Anche l’aceto è un prodotto derivato dall’alterazione microbica di bevande alcoliche (birra,vino, sidro), che si arricchisce in acidità proprio per lo sviluppo di particolari forme batteriche (batteri acetici). L’alta acidità impedisce la proliferazione dei comuni microrganismi alteranti, quindi, ne permette la conservazione nel lungo periodo e ne permette l’impiego come conservante naturale: se un qualsiasi cibo viene immerso in aceto risulta, infatti, protetto da alterazione microbica per un periodo più lungo.

 

Questa digressione sulla storia dell’uomo, del cibo e della birra, ci obbligano ad una riflessione sulla nostra cultura gastronomica: molte delle prelibatezze che oggi gustiamo, molte delle tecniche di produzione di cucina, attualmente esaltate per la raffinatezza, nascono, in realtà, da una esigenza primordiale dell’uomo, ovvero quella di garantire il proprio sostentamento, anche in assenza di cibo fresco!

 

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Massimo Prandi
Info autore

Massimo Prandi

Un Albese cresciuto tra i tini di fermentazione di vino, birra e… non solo! Sono enologo e tecnologo alimentare, più per vocazione che per professione. Amo lavorare nelle cantine e nei birrifici, sperimentare nuove possibilità, insegnare (ad oggi sono docente al corso biennale “Mastro birraio” di Torino e docente di area tecnica presso l’IIS Umberto Primo – la celeberrima Scuola Enologica di Alba) e comunicare con passione e rigore scientifico tutto ciò che riguarda il mio lavoro. Grazie ad un po’ di gavetta e qualche delusione nella divulgazione sul web, ma soprattutto alla comune passione e dedizione di tanti amici che amano la birra, ho gettato le basi per far nascere e crescere questo portale. Non posso descrivere quante soddisfazioni mi dona! Ma non solo, sono impegnato nell’avvio di un birrificio agricolo con produzione delle materie prime (cereali e luppoli) e trasformazione completamente a filiera aziendale (maltazione compresa): presto ne sentirete parlare!