Numero 13/2021

30 Marzo 2021

Fridtjof Nansen e la birra Artica

Fridtjof Nansen e la birra Artica

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Piccola premessa: in questo racconto gli accenni alla birra non sono molti ma ho trovato davvero interessante la storia a cui essa è legata

Fridtjof Nansen (Store Frøen, 10 ottobre 1861 – Bærum, 13 maggio 1930) è stato un esploratore, scienziato e politico norvegese, noto anche come Federico Nansen.
Da giovane praticò sia sci di fondo sia salto con gli sci, ed era un pattinatore provetto. Nel 1881 iniziò a studiare zoologia all’Università Re Federico di Christiania (oggi Università di Oslo) e nel 1882 trascorse la sua prima estate da matricola facendo ricerche sul campo tra le isole Svalbard e la Groenlandia a bordo della nave Viking, attrezzata per la caccia alle foche.

 

 

Oltre a portare avanti i suoi studi, Nansen ebbe anche l’opportunità di far pratica con la navigazione in mare aperto e di diventare un abile cacciatore di selvaggina artica, due capacità che si riveleranno a dir poco fondamentali nelle sue esplorazioni future. Fu Premio Nobel per la pace nel 1922, riconoscimento conferitogli per la sua attività come Alto Commissario per i Rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees-UNHCR) della Società delle Nazioni. Fu lui a concepire il Passaporto Nansen, destinato a proteggere gli apolidi. Al suo nome è intitolato il Nansen Refugee Award, un riconoscimento a chi si è distinto nel campo dei rifugiati. Come esploratore è ricordato, tra l’altro, per il primo attraversamento sugli sci della Groenlandia (1888-1889). A lui si deve anche l’invenzione della “Bottiglia di Nansen”, strumento per l’indagine chimica oceanografica. Il successo di quel viaggio aumentò ancor di più il desiderio di Nansen di confrontarsi con l’Artico, obiettivo: il Polo Nord.

 

 

Nel 1800 dei territori polari non si sapeva molto. Numerose le supposizioni ma poche le certezze. Nansen ritenva che da qualche parte ci fosse un ghiacciaio polare che contribuisse alla formazione delle montagne ghiacciate che scivolavano lentamente dal Polo Nord verso l’Atlantico. Sulla loro superficie ogni tanto era possibile trovare tracce di legno e di terra. Nansen stabilì che non potessero che provenire dalla Siberia settentrionale. Questa sua teoria fu avvallata dal rinvenimento di alcuni reperti lignei provenienti dalla nave a vela Jeannette, naufragata un paio di anni prima (nel 1881) nei pressi delle isole della Nuova Siberia, nel nord della Groenlandia.
Furono tre le ipotesi formulate da Nansen. La prima era che nel mar glaciale Artico ci fosse una corrente in grado di trasportare dal Mare della Siberia orientale fino al tratto di mare compreso tra le isole Svalbard e la Groenlandia lastre di ghiaccio. La seconda, indicava come non ci fosse alcuna massa continentale tale da poter bloccare questa corrente. Ed infine la più pioneristica. Quella di far svernare una nave, solida, progettata e realizzata appositamente per farla arrivare sul pack del Mare della Siberia che, sfruttando il movimento dei ghiacci, andasse alla deriva, orientandosi in direzione ovest verso le isole Svalbard, dove il ghiacciaio sarebbe sciolto e rotto in iceberg, permettendo alla nave di prendere il largo nell’Atlantico e far ritorno alla base.

 

 

Non sarebbe stata la prima volta. Svariati balenieri, cacciatori di foche ed esploratori avevano sperimentato a loro spese quanto fosse pericoloso. Alcuni non erano sopravvissuti, altri invece avevano fatto ritorno. I principali rischi derivavano dall’esaurimento dei viveri e dalla rottura dello scafo a causa della pressione del pack.
Napoleone diceva: “Ci sono tre cose che in guerra non possono assolutamente mancare: la prima è il denaro, la seconda il denaro e la terza, il denaro”. Avventurarsi verso il Polo Nord non era poi tanto diverso da una campagna militare. L’esplorazione era considerata di interesse nazionale per cui si avviò una raccolta fondi che permise di mettere insieme una somma considerevole. Il maggiore finanziatore pubblico fu l’Accademia norvegese delle Scienze mentre tra i privati e i mecenati un grosso contributo arrivò dal birrificio Ringnes, realizzato da Axel Heiberg. Al cantiere Colin Archer a Larvik venne commissionata la progettazione e la successiva costruzione basandosi sulle indicazioni di Nansen. Il legno fu la scelta più ovvia in quanto oltre ad essere più leggero dell’acciaio era anche più facilmente riparabile. La forma contava poco perché non era necessario che la nave raggiungesse alte velocità, doveva soprattutto essere stabile e solida.

 

La chiglia doveva essere piatta, per non venire stritolata dal pack ma sollevarsi al di sopra di esso. Nacque la Fram (“Avanti”, in norvegese) che fu varata il 26 ottobre 1892. Era lunga 39 metri, larga 11 e aveva un dislocamento di 800 tonnellate. Era uno scuner a tre alberi e il suo motore a vapore da 220 cavalli era in grado di portarla a una velocità massima di sei nodi (11 km/h). Poiché nei mari artici inesplorati era possibile incappare anche in acque poco profonde, il pescaggio della nave a pieno carico era inferiore a cinque metri. Lo scafo in quercia fu ulteriormente rivestito sia all’interno sia all’esterno da un doppio fasciame e l’intero scafo fu ricoperto alla linea di galleggiamento da quel che si chiama una “camicia da ghiaccio”, un fasciame supplementare esterno di greenheart molto duro e resistente, spesso dieci centimetri. La parte sommersa della chiglia fu inoltre incapsulata in uno scudo metallico di rame molto liscio e scivoloso, in grado di proteggere dai molluschi e da altri microrganismi nocivi. Con questa nave Nansen poteva in tutta sicurezza lasciarsi trasportare alla deriva dal ghiaccio artico verso il Polo Nord.

Il comando fu assegnato ad Otto Sverdrup che nel 1888 aveva già partecipato con Nansen all’attraversamento con gli sci della Groenlandia meridionale. L’equipaggio era costituito da soli tredici marinai tutti allenati per affontare neve e freddo. La nave fu attrezzata per resistere ai rigori delle condizioni climatiche dei luoghi e del periodo. Scorte di kerosene e carbone attrezzature scientifiche e pezzi di ricambio di ogni tipo. Ovviamente anche i viveri trovarono posto nella stiva, scelti e concepiti per conservarsi il più a lungo possibile. Pietanza principale era il “pemmican”: inventato dai popoli nativi americani era realizzato a partire dalle parti magre di daino, bisonte o, successivamente, manzo, essiccate al sole o al vento e poi ridotte in poltiglia, mescolate con grasso sciolto e frutta secca in polvere, pressate in gallette e infine insaccate). A bordo venne caricato dell’altro: carne in salamoia, pesce, verdure essiccate, vari tipi di zuppe, biscotti, crostini di pane, gallette di pane azzimo, dadi di brodo di carne, uova in polvere, marmellate e composte, latte condensato, zucchero, cioccolata, tè, caffè, cacao.
Anche il bere non fu trascurato. Acqua ne venne caricata poca in quanto era pesante e occupava spazio (comunque era facilmente reperibile). Era molto più utile avere disposizione qualcosa di più forte e Nansen che non era un astemio, seppe valorizzare la buona birra alla quale pensò lo sponsor, il birrificio Ringnes.

 

Il 24 giugno 1893 la Fram lasciò Christiania, l’odierna Oslo. Nei pressi di Capo Čeljuskin, il punto più settentrionale del continente asiatico e della Siberia, l’equipaggio avvistò dei territori sconosciuti, che in omaggio a uno dei loro mecenati furono battezzati Isole di Heiberg, in seguito rinominate nella cartografia russa Isole di Gejberg.
Giorno dopo giorno e miglio dopo miglio il viaggio continuò. Arrivò l’autunno e con esso il mare iniziò il passaggio allo stato solido. Ad Ovest delle Isole della Nuova Siberia, la Fram si ritrovò circondata dal ghiaccio. All’inizio di ottobre la nave era già gelata e fu preparata per lo svernamento. Ebbe inizio la lenta deriva, proprio come Nansen aveva detto.
Basandosi sulle condizioni meteorologiche, del ghiaccio e del mare, l’equipaggio monitorava posizione e rotta. Battute di caccia alla foca e all’orso bianco intrattenevano i naviganti e assicuravano il pasto. La cena di Natale fu celebrata con gli ultimi boccali di birra Ringnes. Nel frattempo, un nuovo anno si affacciò sul calendario, ma le giornate scorrevano tutte uguali.

 

Il 1894 stava per concludersi. A qualcuno fu evidente che forse Nansen avesse sbagliato i calcoli. Ad ogni costo lui voleva essere il primo uomo a raggiungere il Polo Nord e, se non era possibile farlo via nave, allora ci sarebbe arrivato con gli sci e una squadra di cani da slitta. Lo separavano “solo” 800 chilometri.
Alla fine del febbraio 1895 il sole prese il posto della lunga notte polare. La deriva verso nord sembrava essersi definitivamente arrestata. Nansen si mise in marcia verso il Polo Nord. Come compagno di viaggio scelse Hjalmar Johansen, maestro sciatore, esperto musher, abile cacciatore e campione mondiale di ginnastica a Parigi nel 1889. La quantità di provviste e attrezzature da portare fu pianificata con grande scrupolo. Tre le slitte trascinate da ventotto dei trenta cani che la spedizione aveva portato con sé. Anche due kayak nel caso fosse stato necessario attraversare l’acqua.

Partirono avanzando a fatica e molto lentamente, percorrendo tratti molto scoscesi. La calotta glaciale era irregolare, composta da blocchi e creste di ghiaccio frantumati e ammassati, intervallati da grandi buche, crepacci e specchi d’acqua, anche in pieno inverno. Trascorso il primo mese, venne il momendo di abbattere un cane così esausto che non riusciva più a tirare. Nansen annotò sul suo diario: «È stato il compito più sgradevole dell’intero viaggio». Gli altri cani rifiutarono la carne dei loro simili, ma presto la fame li spinse a mangiarli.
Un giorno Nansen e Johansen non diedero la carica ai loro orologi. Le lancette erano inesorabilmente ferme. Questo grave errore fu un duro colpo. Per conoscere la loro posizione calcolarono la longitudine osservando il mezzogiorno locale in rapporto al meridiano di Greenwich o a un altro meridiano conosciuto. Caricarono le molle dei rispettivi orologi e incrociarono le dita. L’8 Aprile tornarono sui loro passi perchè fu chiaro che non ce l’avrebbero mai fatta. Il viaggio di ritorno divenne una lotta per la sopravvivenza. Il viaggio della speranza e della preghiera. Altri cani vennero abbattuti e portare avanti il pesante fardello divenne sempre più complicato.
Un cane dopo l’altro finirono per trasformarsi in cibo mentre una slitta venne abbandonata lungo il percorso. Una volta Nansen e Johansen usarono il sangue di un cane per cucinarsi delle frittelle.
Le scorte alimentari cominciavano a scarseggiare. Parte del pemmican si era bagnato e rovinato.

Il mare iniziò a scongelare permettendo la navigazione con i loro kayak. Nansen racconta nel suo diario: “Il 22 giugno ho sparato ad una foca, risolvendo temporaneamente il problema del cibo. La carne di foca ha un buon sapore. Il suo grasso è eccellente sia crudo sia cotto. Ieri abbiamo mangiato una zuppa con grasso crudo. Per pranzo ho fatto la carne a fette e l’ho arrostita in padella, che neanche al grand hotel avrebbero saputo fare di meglio, anche se un buon boccale di birra sarebbe stata una compagnia perfetta».
Proseguirono il cammino armati di molta fede, fiduciosi si trovare altri esploratori in direzione della parte meridionale della Terra di Francesco Giuseppe verso cui pensavano di essere diretti. Il dubbio era forte in quanto il territorio che li circondava non corrispondeva ad alcuna descrizione conosciuta.

L’autunno si presentò puntuale accompagnato dalle basse temperature e dalla formazione di ghiaccio. Proseguire avrebbe significato rischiare di morire. Pertanto, Nansen e Johansen allestirono un accampamento per l’inverno cercando di accumulare provviste cacciando trichechi (animale grasso e da morto non affondava). Fortunamente ce ne erano in abbondanza. Trascinati a riva li scuoiavano sul posto usando la pelle allargata per disporre la carne e coprirla con il sale per garantirne, grazie anche alla temperatura rigida, una buona conservazione. Le scorte di alcool e di cherosene erano finite ma il grasso di tricheco forniva una valida alternativa come fonte di luce e riscaldamento. Realizzarono candele improvvisate con uno stoppino di garza inserito in alcuni pezzi di grasso su una lastra di metallo.
Nella tenda il caldo era pura immaginazione. Secondo il racconto di Nansen le pareti ghiacciate scintillavano nella luce tremolante della lanterna e offirvano uno spettacolo caleidosopico. All’esterno la temperatura era di –40 °C mentre il vento non dava tregua. I loro indumenti cosparsi di grasso aderivano alla pelle offrendo poca protezione dal freddo. Non c’era assolutamente voglia di avventurarsi all’esterno.

A Febbraio Nansen scrisse sul suo diario: «È strano giacere un intero inverno in un rifugio sotterraneo, senza niente da fare. La nostra vita non è particolarmente piacevole. Penso comunque che ce la faremo. Quello che mi manca di più sono libri, vestiti puliti e cibo decente». Molto probabilmente, anche una buona birra.
Nel maggio 1896 il viaggio riprese. Mentre Nansen e Johansen avanzavano alternado le pagaiate a lente e stanche camminante con cui trascinavano l’attrezzatura, i lastroni di ghiaccio che si scioglievano tuonavano come temporali estivi. A giugno l’abbaiare di un cane pose fine alla loro solitudine. Il suo padrone era l’esploratore britannico Frederick George Jackson, che con la sua squadra di spedizione aveva trascorso l’inverno sull’isola di Northbrook, parte dell’arcipelago della Terra di Francesco Giuseppe.
All’inizio di agosto arrivò la nave di rifornimento della stazione che riportò Nansen e Johansen a casa, in Norvegia. Cinque giorni dopo il loro ritorno, anche la Fram rientrò in porto: dopo tre anni di deriva, il ghiaccio l’aveva ceduta al mare a ovest delle isole Svalbard, esattamente come Nansen aveva calcolato.
Oggigiorno la Fram è esposta in un museo di Oslo a lei dedicato.

 

Il supporto alle spedizioni polari norvegesi garantì al birrificio Ringnes un’ondata di pubblicità favorevole.
Tuttavia, non si trattava di mero marketing: Axel Heiberg e i fratelli Ringnes erano sinceramente interessati alle esplorazioni geografiche. La loro sponsorizzazione passò anche dalla doppelbock (o bock doppia) Bokøl prodotta per la spedizione di Nansen. Si tratta di una birra forte capace di mantenere il suo sapore durante le lunghe traversate in mare e di resistere al freddo meglio di birre più leggere.

Il birrificio è rimasto di proprietà della famiglia Ringnes fino al 1978 e dal 2004 è parte del gruppo Carlsberg. Per commemorare le esplorazioni artiche di poco più di un secolo prima, nel 2012 il birrificio Ringnes ha prodotto un’edizione speciale della doppelbock ispirata alla Bokøl di Nansen. Questa birra, realizzata in collaborazione con il celebre mastro birraio Garrett Oliver della Brooklyn Brewery, è stata soprannominata Imperial Polaris. A questa sono seguite altre edizioni speciali, nel 2013 (anno in cui prese il nome di Superior Polaris) e nel 2014.

La Ringnes Imperial Polaris è una doppelbock di colore marrone scuro con profumi di miele, caramello e agrumi.
Nel sapore dominano le note di caramello e una leggera venatura di luppolo, cui si rende vera giustizia quando la birra è servita alla temperatura ideale di 10-12 °C.

 

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Giovanni Messineo
Info autore

Giovanni Messineo

Giuliano di adozione di origini siciliane (nato a Palermo nel 1972), dal 2009 vivo a Gorizia.
Perito elettrotecnico mancato ho un diploma informatico e prediligo tutto ciò che riguarda la tecnologia a supporto delle attività umane (senza però sostituirle).
Lavoro nel settore della siderurgia da anni occupandomi di Operation e formazione del personale italiano ed estero.
Sono appassionato della nostra bella lingua italiana e credo fermamente in una comunicazione che sia chiara, diretta e concisa per evitare dubbi e/o incomprensioni.
Mi piace affrontare nuove sfide cercando i miei limiti. Mi dedico con passione, sempre da autodidatta alla musica (suono l’armonica a bocca e la batteria), “fai da te” in generale. Incido il legno con il pirografo dedicandomi alla mtb, corsa e sport vari.
La passione per l’homebrewing nacque per caso nel 2012.
Al mio rientro da una lunga permanenza in Cina, mia sorella e mio cognato per il mio compleanno mi regalarono il primo KIT.
Dopo un paio di anni di pratica, esperimenti, assaggi, degustazioni, mi sono appassionato. Nel ho voluto provare tutte le tecniche fino ad arrivare all’ AG in quanto permette di esprimere di più la mia creatività di Mastro Birraio (da cui il nome MMB).
Da allora progetto, sperimento e realizzo una vasta gamma di prodotti per i quali creo in modo autonomo anche le relative etichette che hanno un filo conduttore con la birra e la sua storia.
Non ho mai smesso perchè lo trovo un passatempo che rilassa, mi diverte, mi soddisfa e riempie la casa di ottime fragranze.
Inoltre amici e parenti apprezzano. Le loro critiche mi danno modo di migliorare sempre.
Nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma…(in birra)