Numero 35/2020
24 Agosto 2020
Un viaggio nel “tempo” della birra italiana
In Italia, fino a metà Ottocento la birra è stata un prodotto di consumo limitato a pochi appassionati e infatti non aveva una tradizione locale poiché, fin dall’antichità, legata al consumo di vino. La produzione di birra risultava limitata a laboratori artigianali, con produzioni discontinue e spesso legate ad impieghi temporanei e locali. Le birre di qualità, destinate ad un pubblico raffinato, erano in genere importate dal Nord Europa.
Le prime esperienze imprenditoriali di rilievo per la produzione di birra in Italia appaiono verso la metà dell’Ottocento, ad opera di industriali esteri tra cui Wuhrer, Dreher, Paskowski, Metzger, Caratch, Von Wunster, che cercavano nuove opportunità di mercato.
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Il fiorire progressivo dell’economia e dell’industria in Italia contagiò anche il settore della birra: nel 1890 si potevano contare sul territorio nazionale circa 140 unità produttive, capaci di una produzione stimata in 160.000 hl circa. Nell’arco di un ventennio la produzione italiana quadruplicò e, complice l’abbassamento dei prezzi di mercato, si svilupparono anche le importazioni. La birra entrò così a far parte dell’uso comune, diffondendosi capillarmente nei
mercati.
Il periodo della Prima Guerra Mondiale segnò una battuta d’arresto delle produzioni, anche per la carenza delle materie prime, malto e luppolo in primis, che dovevano essere reperite sul mercato estero. Alla ripresa seguita al termine del conflitto, le fabbricheattive erano solo più una sessantina, ma la capacità produttiva superava il milione di ettolitri. Il mercato assunse una direzione di continua crescita: nel 1925, la produzione raggiunse 1.569.000 hl e
l’importazione arrivò a circa 30.000 hl. I consumi procapite salirono a circa tre litri e mezzo.
La situazione di mercato consentì il rafforzamento di grandi realtà industriali, come la Wuhrer di Brescia, la Dreher di Trieste, la Paskowski di Firenze e Roma, le Birrerie Meridionali di Napoli di proprietà della famiglia Peroni, la Pedavena di Feltre, la Poretti di Iduno Olona, la Moretti di Udine, la Wunster di Bergamo.
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La legge Marescalchi, emanata nel 1927 per ragioni di politica agricola, impose ai birrai l’impiego di una quantità minima del 15% di riso nella miscela dei cereali. Contemporaneamente vennero aumentate le imposte di produzione, sia a livello nazionale, sia comunale, e venne regolamentata la vendita dietro apposita autorizzazione. Queste misure, a difesa del mercato del vino, portarono ad una esponenziale diminuzione delle vendite, a causa dell’inevitabile incremento dei prezzi al consumo. Nel 1930 la produzione crollò a poco più di mezzo milione di ettolitri, molte fabbriche fallirono e le restanti 45 furono ridotte proporzionalmente. Nell’arco di alcuni anni, attraverso un’azione concordata fra i più lungimiranti ed intraprendenti industriali birrari, si realizzò una riorganizzazione del mercato, delle unità produttive e della concorrenza, che consentì alle imprese sopravvissute di rafforzarsi e superare la crisi.
Dopo una fase di lenta crescita delle produzioni, la Seconda Guerra Mondiale portò ad una nuova prolungata fase di arresto delle industrie birrarie.
A partire dagli anni Sessanta, con lo sviluppo della moderna distribuzione organizzata, la birra diventò a tutti gli effetti un prodotto di uso comune. Nel 1975 la produzione si attestava ad otto milioni di ettolitri, con oltre 570.000 hl di importazione: il consumo pro-capite sfiorava i 16 litri. Il 1975 fu però un anno di svolta: infatti, il futuro fu segnato da una diminuzione di mercato di oltre il 20%, anche a causa di un considerevole aumento delle accise di produzione
imposte dal Legislatore nazionale.
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La fase di ripresa si fece attendere, ma seppur lenta, portò ad un nuovo record di consumi, pari a circa 28 litri pro-capite nel 2010. Gli stabilimenti industriali sul territorio italiano, appartenenti per lo più a multinazionali, sono attualmente 18 e impiegano oltre 3.500 dipendenti. Da notare la proliferazione nell’ultimo ventennio di numerosi microbirrifici e brewpub, che rappresentano una realtà non da sottovalutare in termini economici, ma soprattutto in
ottica prospettica per la capacità di qualificazione dell’immagine della birra connessa a tali produzioni di nicchia. Nell’ultima edizione del “BJCP Style Guidelines”, pubblicata nel maggio del 2015, è comparsa, nella seconda appendice, il capitolo “Italian Styles” al cui interno è presente lo stile “X3. Italian Grape Ale”. Come si legge dalla premessa si tratta di uno stile non ancora ufficiale, non incluso nell’elenco dei principali. Va sottolineato il fatto che il primo stile italiano riconosciuto dagli osservatori stranieri descrive una categoria di birre “strane”, prodotte con materie prime “atipiche”. Del resto in un paese privo di tradizioni birrarie proprie, ma ricchissimo di biodiversità alimentare era lecito aspettarsi che i birrai, in questi vent’anni di epopea artigianale, provassero ad utilizzare ingredienti in grado di caratterizzare le proprie creazioni, di legarle al territorio, di renderle uniche e riconoscibili. In un primo periodo sembrava che dovesse essere la castagna con decine di produzioni che facevano molto parlare di sé, anche all’estero, poi l’elenco delle materie prime utilizzate dai nostri birrai si allungato moltissimo, in qualche caso forse anche con qualche eccesso. Non sorprende quindi che siano le “Italian Grape Ale” ad aprire la strada degli stili italiani.